FILOFOLLESOFIA
“TRA SCIENZA E DELIRIO”
Nella foto di
copertina, ci sono io: il
filofollesofo, Giovanni Grama-glia, nato a Napoli, nel La mia vita? e
quale può mai esser stata? ho conseguito soltanto il di-ploma di scuole medie
superiori, liceo classico; sono stato solo tutta la vita; non sono riuscito a
nulla se non a vivere la mia malattia; ed ora, mi preparo molto tristemente
ad una sofferta vecchiaia nella più buia e-marginazione: la “psicoterapia
scrit-tifera” (operazionale), durata tanti anni, non mi ha aiutato
minimamen-te, anzi, fin dall’inizio, mi ha addi-rittura danneggiato. GIOVANNI GRAMAGLIA |
COPERTINA COMPLETA DEL LIBRO RISTAMPATO NEL 2018
Il testo di questo libro
Del quale sono unico detentore dei diritti,
In qualità di autore assoluto,
Fu già pubblicato nell’anno 2003
Dalla casa editrice: “Sensibili alle foglie”,
Nell’ambito del progetto “ARSAN B”,
Dipartimento Salute Mentale, Napoli 2
(Progetto a me rimasto del tutto sconosciuto).
Casa editrice, alla quale concessi,
Mantenendone la proprietà, unicamente
L’autorizzazione alla stampa di mille copie,
Senza compenso in denaro; al solo scopo
Cioè, di avere la soddisfazione
Di vedere pubblicata l’opera.
Giovanni Gramaglia
Il libro di FILOFOLLESOFIA
iniziato da me nel 1998, fu pubblicato dalle edizioni “SENSIBILI ALLE FOGLIE”
nel lontano 2003. Sulla destra la copertina dello stesso libro stampato da me
artigianalmente, con il mio computer e la mia stampante, nella mia abitazione
nell’anno 2008.
Filofollesofia
1
Filofollesofia Gramaglia facebook
FILOFOLLESOFIA – Tube … You-Tube
GIOVANNI
GRAMAGLIA
FILOFOLLESOFIA
-TRA
SCIENZA E DELIRIO-
PARTECIPAZIONE PINA CECCOLI
COLLABORAZIONE MICHELE BAIANO
PRESENTAZIONE
DELL’AUTORE…
AL GIORNO
D’OGGI
Oggi
3 marzo
L’anno
dopo, febbraio 1998, tornai all’Asl e chiedendo di nuovo una terapia e un altro
terapista fui assegnato ad una psicologa, che mi tormentò, anch’essa, perché
scrivessi di ufologia, di altro, e anche di “filosofia sociale e scientifica”,
bontà sua me ne riteneva capace! È ovvio che nel suo delirio psichiatrico era
solo un espediente per mettermi a scrivere e farmi cominciare la terapia che,
mio malgrado, lei aveva stabilito per me. Resistetti per qualche mese, poi,
manipolato dalla sua azione subliminale alla fine mi lasciai convincere,
persuaso che la donna veramente credesse in quello che mi aveva spinto a fare,
con la sua collaborazione. Inutile dire che passarono solo poche settimane, ed
io dovetti tristemente rendermi conto che quella che mi era stata presentata
come una collaborazione di studio filosofico, era invece una delirante terapia
che presupponeva il mio operare con la dottoressa in questione. Provai a
chiedere alla donna, ma questa, sebbene per una volta soltanto, la prima volta
che gliene parlai, ammise la terapia, poi la negò strenuamente nel corso dei
mesi successivi, cosa per la quale io la allontanai considerandola una bugiarda
che mi aveva solo raccontato frottole.
È
sconcertante notare come questi operatori ambientali non tengano conto della
realtà dei fatti e dei comportamenti usuali che mantengono unito il tessuto
sociale della comunità, e forti, ingiustamente della pretesa di terapia, si
muovano come se abbiano il diritto di raccontare qualunque falsità, pur di
convincere il povero disgraziato di turno. È ovvio che nel momento che dette
frottole vengono fuori, cosa che può sempre succedere, il suddetto operatore
perde qualunque credibilità e fiducia da parte del suo paziente, mostrandosi
alla fine per quello che è, comunemente parlando: un fasullo e un bugiardo
inaffidabile. Allontanata la dottoressa, continuai a scrivere collaborando con
un sociologo, alquanto sgrammaticato e, per così dire, improvvisato, nel suo
modo sgradevole e menzognero di comportarsi nei miei confronti: gli chiesi più
volte della terapia, e lui, mi rispose alternativamente che, sì, era una
terapia; ma anche, altre volte, che no! non era una terapia! Con lui dopo la
pubblicazione del primo Filofollesofia non volli più avere rapporti, per le
ragioni che saranno esposte con dovizia di particolari nei libri successivi a
questo: Filofollesofia 2, 3, e soprattutto 4, e che ho scritto appositamente
per raccontarli.
Il
mio pensiero nei riguardi degli operatori dell’Asl era questo, che loro mi
avevano messo in terapia “scrittifera”, perché mi ritenevano un idiota da
risocializzare, reputandomi quindi incapace di scrivere veramente
dell’argomento stabilito; per cui decisi di continuare per raggiungere il
risultato finale e dimostrare loro, che ero capace di fare, io, quello che
detti operatori invece non erano in grado di realizzare. Così terminai il
volumetto malgrado la collaborazione deleteria del sociologo su detto, che con
la sua inettitudine, potrei dire sarcasticamente, mi faceva fare un passo
indietro, ogni due faticosamente da me fatti in avanti.
Tutto
questo lavoro letterario e concettuale, che potrei definire totalmente inutile,
mi è costato 14 anni della mia sofferta e dolorosa esistenza (nell’arco di 20 anni),
nella quale io invece di cercare di risolvere i miei terribili problemi
psicologici e sociali, ho sprecato la mia intelligenza e il mio tempo a
scrivere; infettato, oserei dire, da un terribile virus concettuale,
incurabile, che a tanto mi ha spinto; instillatomi sconsideratamente da una
ancor più sconsiderata dottoressa, vittima a sua volta di un oltremodo ancor
più sconsiderato, deleterio e demenziale accademismo ambientalista che presenta
come terapie, deliranti impostazioni concettuali che possono alterare,
patologicamente, la vita di un individuo, per anni, decenni, o finanche, per
sempre; e che tutto sono o possono essere tranne che scienza e medicina.
INDICE
Gianfilosofo E Il Dottor
Hicckstz……………….….…….…………... Dagli Al Pens Inv
Civ…………………………………………............
. Processo Alle Opinioni - Parte
I…………………….………………… Processo Alle Opinioni - Parte
II…………………..………………… Processo Alle Opinioni - Parte
III………………….………………… Processo Alle Opinioni - Parte
IV………………….………..………. Processo Alle Opinioni - Parte
V…………………………………….. Conclusione………………….……………………………….……………... |
pag 11 pag 32 pag 66 pag 81 pag 112 pag 144 pag 182 pag 225 pag 273 |
Il Presente
Testo È Stato Regolarmente Registrato Presso
IL MINISTERO DEI
BENI E ATTIVITÀ CULTURALI
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Diritto D’autore-
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la sintematica più bella che ci sia
www.filofollesofiagramaglia.it
Stampato: Giugno
2018
TIPOLITOGRAFIA
GRAFIÒ
Via Napoli 157 -
80018 Mugnano di Napoli (Na)
Data pubblicazione:
Febbraio 2003
Il presente testo va ricollegato
alla “homepage” del sito: http://www.filofollesofiagramaglia.it
Completato
maggio 2000
G-File
n. 2
1°
paragrafo
"La grande cavalcata" (barzelletta popolare).
Un matto, con molta educazione, chiede udienza al direttore
del manicomio, allora, casa famiglia, ASL, o che so altro, ancora non c’erano,
per mettere all'attenzione di quest'ultimo una sua idea. Toc-toc, bussa il
nostro amico alla porta dell'ufficio del dirigente che risponde: ─ Avanti.
Timoteo, un metro e ottanta circa, capelli corti, un po'
arruffati, ancora ben colorati di nero, malgrado la sua età; vestito effettiva-mente
fuori moda, forse parecchio; con i suoi occhiali da vista, color tartaruga,
imitazione, ovviamente; lentamente e timidamente apre la porta dell'ufficio,
quel tanto che basta a permettergli di entrare; e con la sua voce, appena
percepibile chiede: ─ È permesso?
Il dottore, dietro i suoi bei baffoni, sorridendo molto
amichevol-mente risponde: ─ Prego, si
accomodi, mi fa molto piacere che abbia qualcosa di nuovo, e sono convinto di
interessante da pre-sentarmi, si sieda e mi dica con calma.
Timoteo, a questo punto ormai già entrato nella stanza,
soc-chiude la porta alle sue spalle, lentamente si siede sulla poltroncina di
fronte la bella scrivania, di quell'ufficio, comunque, tenuto con un minimo di
decorosa eleganza; e a bassa voce, come suo solito, si spiega: ─ Sa, signor direttore, ho molto tempo
libero, e tutto il giorno non so cosa fare. Perciò, penso, penso, penso, a
tante cose, e sono convinto che impegnandomi in qualcosa di valido e
costruttivo come la scrittura, potrei sentirmi realizzato; e di conseguenza
meno inutile e superfluo. ─ Un attimo di
pausa, e poi Timoteo riprende: ─ Oltre tutto
potrei fare qualcosa di utile, magari, scrivendo un bel romanzo: le persone lo
leggerebbero, pubblicandolo in seguito, ne trarrebbero gioia, piacere, e io ne
sarei contento, ovviamente; veramente, con-tento... molto contento, contento,
contento.
Il direttore, un po' impensierito, non sapendo cosa dire,
interrom-pendolo quasi, esclama: ─ Va bene, Timoteo,
calmati, non avere ti-more, va tutto bene, non hai altro da fare che chiedere,
se ti serve qualcosa, e se potrò, te la darò certamente.
Il nostro amico, riprendendosi, rincuorato dalle parole del
dottore, sorridendo a malapena: ─ Vede
direttore, mi servono solo fogli, tanti fogli di carta, per scrivere, una
matita (allora i computers, i p.c. non esistevano). Per cancellare... sì, una
bella gomma, per rimediare agli errori, alle approssimazioni, alle follie del
mondo; no, forse una gomma sola non basta, non può bastare; ─ stringendo le mani l'una nell'altra, e
alzando gli occhi al cielo: ─ Meglio due!
Il direttore, dall’altro lato della scrivania, messo un po'
in allarme dall'atteggiamento del ricoverato, lentamente, si alza, poggia
delica-tamente la mano sulla spalla sinistra di Timoteo, e cercando di
mo-strare simpatia e assenso, leggermente sorridendo dice: ─ Ma certo, non temere, una matita,
tanti fogli e due gomme per cancellare.
─ Meglio tre, ─ aggiunge Timoteo, ─ meglio tre! ─ ripete il dotto-re; e si avvicina allo
scaffale, dal quale prende appunto il materiale richiesto e lo porge al matto,
con un sorriso e un augurio. Timoteo ringrazia, sorridendo soddisfatto, e con
il materiale suddetto, esce dall'ufficio dirigendosi verso la sua camera, lasciando
il direttore un po' perplesso, che rimugina tra sé e sé: ─ Speriamo bene…
Il nostro Timoteo, scrive, scrive, scrive, effettivamente; e
dopo un mese ritorna dal direttore, stessa situazione, stessa richiesta: fogli
matite e gomme per cancellare; Timoteo, prende con gioia gli oggetti che il
dottore con altrettanta gioia gli porge e salutando, con un pic-colo inchino,
quasi a voler ringraziare con tutta la sua persona, oltre che con la voce, come
già aveva fatto, va via.
Dopo un altro mese, altra richiesta identica, soddisfatta; e
così per altri due, tre mesi la situazione si ripete, lasciando ogni volta
sempre più perplesso, ma favorevolmente interessato il direttore, che ormai,
con profonda curiosità si interroga sul possibile contenuto del libro, che Timoteo,
almeno all'apparenza, con grande impegno, sta alacremente scrivendo.
Finalmente, in una bella mattinata di sole, risplendente e
lumino-sissima, quasi a salutare quello che può essere forse un vero e pro-prio
evento: la presentazione al mondo di un nuovo capolavoro lette-rario, Timoteo
si mostra, felice, pieno d'entusiasmo al nostro dirigen-te, aprendo addirittura
la porta senza nemmeno bussare, dimentico quasi della sua solita timidezza; ma
una volta dentro la stanza, ren-dendosi conto della sua insolita irruenza, si
ferma, ed eccitato si ri-volge al direttore che lo guarda con non poca
meraviglia: ─ Direttore,
direttore, mi scusi se sono entrato così senza bussare. Però, sa ho finito il
libro, e sono corso qui per portarglielo a vedere: è solo grazie a lei che ho
potuto scriverlo, e a tutti i fogli che mi ha dato; glielo posso mostrare?
Il direttore sentendo la buona notizia, dimentica
istantaneamente la sua meraviglia e perplessità e preso dalla gioia e dalla
curiosità, esclama: ─ Ma certo,
Timoteo, sono mesi, che aspetto questo mo-mento, anzi ti dirò che non si parla
d’altro al centro, che del tuo libro; e ora che l'hai terminato, e me lo porti
per darci un'occhiata, ci man-cherebbe anche che non avessi tempo per
visionarlo.
Timoteo rincuorato, gioioso, per queste parole si avvicina
alla scrivania, porge il libro al direttore, e felice, emozionato e sorridente,
gli dice: ─ Vuole dargli
un'occhiata, vuole leggerne qualche pagina? così poi mi fa sapere; sperando che
lo trovi interessante.
Il dottore, prendendo il manoscritto con le due mani, gli
risponde:
─ Perché non
resti con me, per leggerne qualche pagina assie-me, penso che farebbe piacere a
tutti e due.
Timoteo lo interrompe e, assumendo un tono quasi enfatico,
dice:
─ Volentieri, ma
sa, sono così stanco: ho lavorato tutta la notte per concludere l'ultimo
capitolo e finire il libro, e vorrei andare a ripo-sare. Lo legga lei, poi mi
fa sapere; e, speriamo bene!
E il direttore a lui: ─ Facciamo
così, d’accordo, va bene! Vai tran-quillo, che io resto qui a dargli
un'occhiata; d'altra parte, fortuna-tamente in questo momento non sono
impegnato. Ci vediamo dopo, allora, buon riposo.
Timoteo, ringrazia, sorridendo, saluta e va via, chiudendo
alle sue spalle delicatamente, come suo solito, la porta. Il dottore, rima-sto
solo, si siede, quasi famelico, nella sua curiosità, accresciutagli in mesi di
attesa; e finalmente legge: “Di Timoteo de Rossi: La gran-de cavalcata".
Volta la pagina della copertina e trova bianca la suc-cessiva; volta un'altra
pagina e nuovamente ritrova il titolo ben scrit-to a mano libera, ma in
stampatello. Volta pagina di nuovo e final-mente legge: «Luigi, giovane uomo, alto forte e prestante, avvicina-tosi
al suo purosangue, splendidamente bianco, con un balzo gli monta in sella. Un
colpo di speroni, un grido, e via nel vento di pri-mavera, accompagnato dallo
scalpitio dell'animale: pt-po, pt-po, pt-po...».
Tristemente meravigliato, il dirigente interrompe la
lettura, solo per rendersi conto che tutta la pagina fino all'ultima riga è
piena di questa parola. Incredulo, deluso e innervosito, volta velocemente il
foglio e legge: “Pt-po, pt-po, pt-po”... all'infinito! Freneticamente, allo-ra,
aprendo a caso in successione, legge a pag. 5: “Pt-po, pt-po, pt-po”... a pag.
10: “Pt-po, pt-po, pt-po”... a pag. 100: “Pt-po, pt-po, pt-po”... a pag. 200,
lo stesso; a pag. 300 identico! Allora, veramente deluso, prova a guardare
l'ultima pagina per vedere se almeno lì, qualcosa da leggere ci possa essere.
Ormai tristemente consapevo-le del fatto che tutto il libro non è altro che la
ripetizione ossessiva, folle, dell'unica parola, di questa voce onomatopeica,
sopra riportata e ripetuta: “Pt-po, pt-po, pt-po”... All'ultima pagina, trova
effettiva-mente però una razionale conclusione: «Pt-po,
pt-po, pt-po! nel vento di primavera, lo splendido destriero bianco galoppa
furiosa-mente. Ma ad un tratto: uno strattone alle briglie, l'impennata
grotte-sca del cavallo che si ferma quasi cadendo per lo sforzo; il balzo
felino di Luigi che scende di sella e si allontana accompagnato dal nitrito
dell'animale: ─
Hiiiiiiiiii... ─ Qui termina
la grande cavalcata!» e un po' più
sotto: “ FINE ”.
2° paragrafo
Partendo dalla storiella precedente, sento il bisogno di
soffermar-mi su una mia personale considerazione: siamo fortunati che Timo-teo
fosse matto, e non altro, e che quindi abbia costruito alla fine so-lo un'opera
letteraria; ripetitiva, monotona, noiosissima, ma sempre e solo letteraria!
Per quale motivo questa mia osservazione? So, effettivamente,
ammetto davanti a me stesso e agli altri: sono "matto" (parola non
inserita in una precisa terminologia medico-psichiatrica, e che
gros-solanamente vuol dire: persona bizzarra, buffa, "fuori di testa”;
come vedete, lo so anch'io; e Ceccolina conferma!). Però, sono anche
in-telligente, come già ho detto, e probabilmente ripeterò; d’altra parte, sono
Dio (ah, che bel delirio di onnipotenza: mal comune mezzo gaudio).
Intelligentissimo, troppo intelligente, e si sa, o almeno io ne sono convinto,
quando un matto é troppo intelligente, automati-camente, prima o poi diventa
filosofo: e via, nel vento di primavera con la sua grande cavalcata; non solo
letteraria, ovviamente pur-troppo, ma anche e soprattutto concettuale, e
allora, cominciano i guai più o meno seri, a seconda delle idee presentate.
Anch'io, co-me matto troppo intelligente, devo avere subito anni fa questa
me-tamorfosi, così eclatante e meravigliosa: e come da una crisalide viene
fuori la farfalla, dal matto troppo intelligente è nato il filosofo. Basti
pensare a quanti mistici, hanno scritto di teologia, ognuno par-lando del
proprio "Unico e vero Dio"; scatenando dappertutto contra-sti
terribili, guerre di religione, persecuzioni, stragi, stermini, motivati solo
dalla caccia all'eretico; eretico generale, visto nel nemico non credente.
Alcuni, i più famosi, nati, vissuti e operanti migliaia di anni fa, sono ancora
in voga, con le loro mistiche rappresentazioni, e an-cora trovano seguaci
pronti ad uccidere e a farsi uccidere nel nome luminosissimo di Dio, senza mai
né averlo visto, né averlo potuto ascoltare. I filosofi politici: Marx ad
esempio, che per aver scritto il "Capitale", ha dato origine alle
correnti politiche del comunismo; che nelle sue mille rappresentazioni, pare
abbiano provocato, da come dicono in tivù, se non ho capito male, circa cento
milioni di morti, in tutte le guerre di "Liberazione del popolo"
dall'oppressione imperiali-sta e capitalista. Portando alla fine però, solo ad
altre dittature e non del proletariato, come auspicava Marx stesso; dittature
più o meno frustranti e schiaccianti, costruite sullo sterminio e sul sangue; e
che poi hanno a tutti i costi cercato di reggersi sulla repressione e sulla
violenza. Non parlando poi, o meglio ancora, volendone parlare in-vece, del simpatico
Adolf, mistico e politico contemporaneamente. Tutti sanno chi era: il capo
della Germania nazista; ma pare che nessuno tenga presente, o voglia ammettere
che era anche un filosofo, forse non il più intelligente di tutti, ma
certamente il più alienato! La sua era una vera e propria teoria filosofica,
aberrante, feroce, distruttiva, ma certamente non per lui e per chi lo seguiva,
e comunque: teoria filosofica. Ai filosofi si tende a dare l'aspetto bona-rio,
ragionevole di chi ponderando, ponderando cerca di arrivare alla radice delle
cose, analizzandole e studiandole in tutti i modi; ma non sono solo quelli i
filosofi, sarebbe il caso di tenerlo presente; forse quelli sono solo i più
innocui... forse. Tornando al simpatico Adolf, definito schizofrenico, a
posteriori, che belle guerre, che riuscì ad organizzare con quei 40, 50 milioni
di tedeschi, schizofrenici come lui a questo punto, coinvolti dalle sue idee
della razza eletta e del-l'impero dei mille anni. Era un filosofo? si! tanto è
vero, che le giova-ni generazioni ancora lo studiano, per le strade, magari
soprattutto, è vero; ma comunque allo stesso modo di come altri giovani, in
altri siti organizzati all'uopo, studiano suoi colleghi, meno aggressivi
for-se, ma non certo meno deleteri.
C'è da avere paura ad essere, anche solo a definirsi,
filosofi: oggi costruisci e presenti una teoria ai pazzi umani, e domani così,
come se niente fosse: 10 milioni di morti, 20, 30, e più; e i geni, che
opera-no per il bene dell'umanità, che poi è stato sempre il sogno lavora-tivo
della mia vita, da quando, evidentemente, bambino, ragazzo, uomo, vedevo,
seguivo e ammiravo nei film di fantascienza, che ho sempre adorato, lo
scienziato (il genio), intelligente, coraggioso, al-truista, eroico, che grazie
alla sua tecnologia sconfiggeva l'alieno; salvando il mondo dagli
extraterrestri cattivi. Cosa dire di loro!? oggi uno scienziato scopre l'atomo,
per il bene dell'umanità; domani, un altro costruisce e perfeziona il razzo,
poi il razzo vettore, e lo adatta in seguito ai voli spaziali. Un altro ancora,
elaborando una mate-matica superiore, riesce a farlo muovere su orbite sempre
più complicate e precise, sempre per il bene dell'umanità. Intanto che altri
hanno già scoperto le onde hertziane, la tecnologia dell'elettro-nica e la
scissione dell’atomo. E alla fine tutti insieme hanno collabo-rato e
partecipato alla costruzione del razzo intercontinentale orbi-tante
terra-terra, a testata termonucleare multipla... e tutto per il be-ne
dell'Umanità! Anche fare il genio “compreso”, a quanto sembra, può diventare
altamente deleterio; e allora? allora, all'inizio ero pie-no di perplessità:
scrivere o non scrivere? e lo sono ancora! Ma for-se, pensandoci bene, aprirmi
al mondo sarebbe la cosa migliore; e presentarmi nella mia precisa, ampia,
complessissima vivacità po-trebbe vedere realizzato finalmente il sogno della
razza umana. In-fatti, grazie a me, che davvero potrei definirmi, al contrario
di Hitler, il filosofo meno matto e più intelligente della storia della
filosofia… non ci credete? Lasciatemi scrivere con calma quelle 5, 6 mila
pagine e vi garantisco che ve ne convincerete! pagine nelle quali potrei
pre-sentare ben elaborate tutte le mie teorie e conoscenze psicologiche,
sociopolitiche, filosofiche, astronomiche, fisiche e matematiche; ben sostenuto
dalle mie conoscenze ufologiche e personali, non dimenti-cando, i miei studi
televisivi, e il mio titolo didattico alieno, equiva-lente più o meno ad una
laurea in storia e filosofia; e come va a finire poi? semplice, scoppia la terza
guerra mondiale, ma come minimo! ben guarnita e farcita da qualche piccola
bomba all'an-timateria, costruita come sempre dai soliti geni che lavorano per
il bene dell'umanità. Bomba, venuta fuori da qualche mia allucinante favola
ufologica: che dopo decenni di studi e di calcoli, partendo dalle espressioni
matematiche "Gramagliane", gli scienziati sono riu-sciti con tanta
capacità ad approntare. Filosofi e politici hanno fatto il resto, per smuovere
le masse e portarle all'Apocalisse, mentre spe-culatori e mercanti d'armi li
sorreggevano; e alla fine, grazie al lavoro di tutti costoro: saggi, filosofi e
geni, politici e mercanti al... servizio dell'umanità; qualcuno soprattutto al
servizio di se stesso, l’umanità avrà risolto ogni suo problema; e il tutto,
partendo da Gra-maglia, che spiega le sue ben riposte conoscenze. Peccato però
che nessun umano, nel caso ipotizzato, potrà rimanere vivo per ringraziarmi,
quando il pianeta, e forse l'intero sistema solare, insieme all'uomo, non
esisteranno più. Comunque, e in ogni caso, mi sentirò soddisfatto, ammesso che
senta ancora qualcosa, per aver lavorato come filosofo e come genio al servizio
e per il bene dell'umanità, che però allora non ci sarà più, avendo, per
fortuna e grazie a me, smesso definitivamente di soffrire.
E adesso, mi raccomando, non dite che non sia delirio
questo, e che non sia io, matto e megalomane: non vorrei che qualcuno pen-sasse
che non sono filosofo e genio! ma nel caso non c'è problema, perché tanto
questo è solo l'inizio.
Avendo considerato e bene spero, riprendiamo dalla storiella
di Timoteo: quella della richiesta di collaborazione del matto al direttore del
"manicomio", l'ho scelta appositamente, perché analoga situa-zione si
è verificata realmente, quando, trovatomi a colloquio con il dottor Perrino, su
mia richiesta per discutere della copertina di un libro, scritto dai medici del
DSM ASL NA2 per il quale ho collaborato, inserendovi, come mi era stato chiesto
(terapia partecipativa?) la foto di un mio dipinto, mi sono permesso di chiedere
la stessa col-laborazione. Con una differenza però, e ancora ne sorrido, tra me
e me, dall'imbarazzo: invece di chiedere carta, matite e gomme (per cancellare
i mali del mondo), mi sono permesso di richiedere la col-laborazione di una
psicologa e un sociologo, per due appuntamenti complessivi settimanali, e
l'utilizzo oltretutto, di un computer, per ribattere in bella copia il tutto,
da me scritto e da loro, in collabo-razione riveduto. Confesso che temevo un
po' la sua reazione; e cioè, che oltre ad un preciso no! chiamasse qualche
infermiere, con tranquillanti vari; e invece, sorridendo, ha molto garbatamente
ac-consentito. Prometto, assicuro e garantisco di non riempire assolu-tamente
800 facciate di: “Pt-pò, pt-pò, pt-pò”, in rispetto all'intel-ligenza e alla
collaborazione che mi è stata accordata. Sperando comunque che, malgrado
l'apparenza, una grande varietà di parole, il risultato concettuale non sia lo
stesso: che qualche musa filosofi-co medicale ce la mandi buona! Comunque in
ogni caso, qualunque cosa possa mai scrivere, socio-politico-mistico-ufologica,
aberrante ed alienante al massimo, mi raccomando, voi lettori umani,
mante-netevi calmi, non suicidatevi, non aggredite i vicini, non rivoltatevi
gli uni contro gli altri; non scatenate rivoluzioni, guerre civili e non;
stra-gi, stermini, genocidi vari a sfondo politico, religioso, sociale ecc..
Ri-cordatevi che è solo un uomo che parla, al massimo un povero, piccolo
alieno; e non è il caso di uccidersi o uccidere, rischiando di essere uccisi;
solo per un'idea, magari puramente mistica e catego-ricamente indimostrabile
nella sua reale veridicità, come per migliaia di anni, e oltre, cari umani,
avete fatto, e continuate a fare. Tornando a Perrino, credo che fosse così ben
disposto, poiché Ceccoli, la psi-cologa, già gli aveva presentato la
situazione, dato che ne era da tempo a conoscenza, mettendoci la "buona
parola". Se così ha fatto, ben fatto (forse)!
3° paragrafo
Ma, come sono arrivato al DSM ASL Napoli 2? spero che
interes-si, perché tanto, comunque adesso lo racconto. Il mio nome come da
copertina, più il cognome, è Giovanni Gramaglia. Pensionato per grave
problematica psichica (invalidità civile e del lavoro): mi è stata
diagnosticata approssimativamente, un po' da tutti, una bella, ge-nerica,
"psicosi dissociativa". Ma non lasciatevi ingannare dai miei scritti
lucidi e coerenti, almeno credo, e dal mio atteggiamento tran-quillo e pacato,
forse; nel caso mi doveste incontrare e conoscere fate attenzione, sono molto
più "matto" di quel che sembra. Il fatto è per fortuna, che sono
capace di un grande autocontrollo e di una an-cora più grande abilità
recitativa: perciò riesco così bene a nascon-dere i miei sintomi, e a sembrare
quasi normale. Però, intanto, dove vado vado, aprendomi, e spiegandomi per
bene, mi danno subito la pensione: mi basta smettere di recitare e diminuire un
poco il mio autocontrollo. Alla visita psichiatrica però, per mostrare la mia
reale problematica mentale, per l'invalidità civile, mi sono lasciato andare un
po' troppo, tanto che ho cominciato a tremare e a gesticolare convulsamente. Il
mio nervosismo, era tale che, malgrado il dottore cercasse di calmarmi in tutti
i modi, ho impiegato alcuni minuti per riuscirci. Dopo ero nervosissimo, al
punto che, terminata la visita, non riuscivo più nemmeno a ritrovare l'uscita:
in un corridoio con una semplice biforcazione a elle. E solo per riorganizzarmi
mental-mente, e ritrovare il mio solito, barcollante, pietoso equilibrio
menta-le, mi ci è voluta addirittura una settimana; e tutto questo
semplice-mente per dire che stavo male. Comunque almeno, mi è stato
cor-risposto anche l'accompagnamento, oltre alla pensione: e il tutto concesso,
prima che io arrivassi al punto di perdere quasi comple-tamente il controllo.
Questa concessione dell'indennità mi è molto servita, per
"so-pravvivere", come spiegherò in seguito. E così, dopo 17 anni di
atte-sa, tanto, avevano impiegato per convocarmi finalmente alla visita medica,
avevo anch'io la mia bella pensione. Quando mi arrivò il primo mandato di
pagamento, notai però, che di tutti quegli anni, non mi erano stati corrisposti
gli arretrati, ad eccezione dell'unico che andava dalla visita medica al primo
pagamento. Telefonai per protestare, garbatamente ed educatamente, facendo
presente la cosa; mi dissero che dovevo recarmi in sede, con documentazioni
specifiche per fare reclamo. Un po' deluso, ma neanche tanto, ri-sposi che non
me la sentivo: ─ Sto male! ─ risposi all’impiegato, non sono in
condizioni di affrontare battaglie legali per avere altri soldi! ─ e lui di rimando, ─ nessuna battaglia legale, venite qua e
presentate le carte. ─ E io,
concludendo: ─ Lasciate
stare, va bene comunque anche così! ─ pensando tra
me e me, “almeno sopravvivo!” anche perché allora non avevo ancora avuto la mia pensione
Inps di ex commerciante.
Fino a trentacinque anni, avevo sempre cercato, per quanto
mi era stato possibile, di organizzarmi qualcosa per inserirmi nella so-cietà
lavorativa, con patetici risultati però; e così, a quell'età, mi con-vinsi che
effettivamente era inutile insistere. O ero io incapace, che sembrava la cosa
più ovvia, malgrado non mi facesse piacere ammetterlo, o era la sfortuna, o
chissà che altro... magari l'intervento nefasto del computer VDS. Ma
"lavorare" proprio non era una cosa che, malgrado i miei sforzi,
potevo portare avanti normalmente. Mi arresi quindi all’idea, non avendo altro
a cui aggrapparmi e non es-sendomi ancora stato riconosciuto, allora, il
diritto al pensionamento, mi dissi che certamente qualcosa sarebbe successo,
prima o poi, che mi avrebbe comunque garantito la sopravvivenza economica, una
volta che i miei familiari, che mi mantenevano, due vecchiette: madre e zia,
non ci fossero state più; e infatti, è venuta la pensione, all'incirca a 37
anni (ora ne ho 45). Per la pensione Inps di commer-ciante, poi avevo versato 5
anni di contributi come venditore ambu-lante, grazie molto di più alla mia
famiglia, che al mio lavoro. Lavo-rai, infatti, soltanto per i primi due anni,
guadagnando nemmeno, tolte le spese, i soldi dei contributi suddetti, ma per il
resto pagarono tutto loro: madre e zia. D'altra parte, nelle documentazioni
Inps mi pare che proprio si parlasse di un minimo di incapacità lavorativa di
tre anni.
Le visite mediche andarono in maniera più tranquilla, per
fortuna questa volta, se escludiamo i miei buffissimi atteggiamenti alla
"pre-visita", accompagnati, da parte mia, da tantissimo imbarazzo!
Così, alla fine, ebbi la mia pensione ex commerciante, ci fu
solo un intoppo burocratico, di poco conto, ma curioso: tra un ufficio e
l'altro, dello stesso palazzo Inps, rifiutavano di passarsi la fotocopia di uno
dei tanti bollettini da me pagati, perché gli impiegati non era-no disponibili;
e a me, che mi offrivo di farlo personalmente, per pro-cedura, rifiutavano la
collaborazione. Effettivamente mancava una copia di un bollettino, per mia
responsabilità, bollettino d'altra parte però presente in uno dei due uffici.
L'ufficio A aveva copia del mio pagamento pervenuto tramite posta e da me
regolarmente effet-tuato. L'ufficio B, richiedeva copia identica, che purtroppo
non era in mio possesso, in quel momento, perché temporaneamente smarrita, o
almeno una fotocopia. L'impiegato di A, che aveva copia del bol-lettino, era
impegnato e non poteva andare a B; quello di B, altret-tanto, e neanche lui
poteva muoversi per andare da A, a prendere la fotocopia del bollettino, o il
bollettino stesso, per fotocopiarlo. L'im-piegato di B, allora mi disse di
andare personalmente a prendere il suddetto famigerato effetto di pagamento, o
almeno la fotocopia nell'ufficio A; ma l'impiegato di A, disse che a privati,
non era am-messo l'accesso alla documentazione, e che l'impiegato di B,
se-condo procedura, doveva andare ad A. Ma la signora di B diceva che era
l'impiegato di A che doveva andare a B; e la cosa non si ri-solveva in nessun
modo. Insomma, alla fine, avvilito e deluso, andai via; però fortunatamente,
stesso in giornata, la signora dell'ufficio B, mi telefonò per rassicurarmi del
fatto che il passaggio di documen-tazione era stato effettuato, e che al più
presto avrei avuto il mio bel-l'assegno di invalidità integrato al minimo, cosa
che si verificò effet-tivamente. Oltretutto, in seguito ritrovai poi il su
indicato bollettino maledetto, che non serviva ormai più; e che ho ancora
conservato con cura.
Quello che purtroppo, mi disturbava parecchio, e che
comunque non potevo non accettare, se volevo continuare ad avere la mia
pen-sione Inps-commercio, era quella procedura terribile della visita me-dica
triennale; che per fortuna però si effettua solo due volte prima di rendere
definitivo l'assegno, almeno per me così è stato. Faccio di tutto per
nascondere a me stesso i miei problemi, le mie angosce terribili, le mie
considerazioni e timori da incubo, e sforzandomi note-volmente riesco a
mantenermi relativamente calmo. Ma quando de-vo esporre, in colloquio
psichiatrico, le mie cose, allora devo tirarle fuori, presentarle a me stesso
prima che ad altri, risultato: per setti-mane, prima e dopo la visita, la mia
sensazione più evidente e oppri-mente è quella di vivere un vero e proprio
incubo, dal quale solo la morte potrebbe, forse e neanche sarebbe sicuro,
tirarmi fuori. È inu-tile verificare più volte il mio stato mentale: sono così
con tutta la mia problematica fin da quando ero ragazzino: cambiano i sintomi,
ma l'alterazione di fondo è sempre la stessa. Chi lo sa, forse speravano nel
miracolo!? Comunque bisogna convenire nei confronti dell'Inps che la sua fama
di essere parecchio restia a concedere pensioni di invalidità probabilmente non
è meritata. Magari, quelli che a volte lamentano televisivamente l'avvenuto
rifiuto, effettivamente devono mancare del requisito sufficiente di invalidità:
dato che io, evidente-mente avendolo, ho ottenuto il totale assenso da parte
dell'istituto e quindi l'assegno, e senza nessuna conoscenza, né a basso né
tanto meno ad alto livello e nessuna agevolazione. Non ero iscritto a parti-ti,
non lo sono mai stato; non facevo parte, né lo faccio tuttora, di associazioni
di invalidi e né ho chiesto l'aiuto di patronati e simili, e né infine ho
usufruito di appoggio legale di un qualsiasi tipo. Come d'altro canto, ho agito
presentando la mia richiesta di pensione per l'invalidità civile: sono
semplicemente, mogio e timido, andato in giro per gli uffici, io, i miei fogli
e documenti vari, chiedendo informazioni e spiegazioni ai vari addetti. Spinto
soprattutto in questo secondo caso dalle ossessionanti insistenze di quella
gran... vecchiarella di mia madre, che non mi lasciava mai in pace: lei
l’assegno o la pen-sione Inps ex commerciante.
Sono pensionato, dicevo pagine fa, e come tale, ogni tanto
ricevo dal Ministero del Tesoro, tramite Prefettura di Napoli, richiesta di
documentazione relativa alla pensione di invalido civile (all’epoca, nel 2000,
la pensione inv civ era gestita dal suddetto ministero), mol-to raramente però;
da parte dell'Inps, per la pensione ex commercio, un po' più spesso. E per
l'appunto, verso il mese di febbraio del-l'anno
4° paragrafo
«Qui comincia la sventura del signor Disavventura, che coi medi-ci
furboni ci ha rimesso bei milioni!» di lire, ovviamente. Il giorno nel quale
arrivai al Servizio di salute mentale (salute?) dell’ASL NA2, era o doveva
essere all'incirca il 10,15 febbraio 1997, chiesi all'infer-miere di avere un
colloquio con un operatore e fui fatto accomodare in una piccola stanza.
Risposi alle solite domande di rito: nome, co-gnome, indirizzo, titolo di
studio, stato civile... numero masturbazioni quotidiane, defecazioni
settimanali, ecc., ecc.. Insomma, un vero e proprio piccolo interrogatorio.
Impressionabile come sono, già pen-savo di fuggire il più lontano possibile.
Comunque, finalmente la co-sa si concluse e io fui introdotto, dopo qualche
minuto di attesa, in un'altra stanza e qui ebbe quindi luogo il fatidico
incontro tra il sot-toscritto e il suddetto Servizio di Salute Mentale,
rappresentato, nella fattispecie specifica dalla persona fisica
dell'emblematico, ematico e fantomatico dottor Adolf Sigmund Hicckstz
(pronuncia semplicemen-te “Ics”… che spreco di consonanti… ah! Queste lingue
straniere!). Non ci credete che al Servizio di Salute Mentale dell’ASL NA2
esiste il dottor Hicckstz? Andate, andate al Servizio e vedrete che dietro un
quadro, sotto le scrivanie, o magari in qualche registro, in qualche tabulato
riservato certamente troverete questo nome. Andate, anda-te!... Altri incontri
pure hanno fatto epoca e storia: Ciano e Mussolini, Garibaldi e Vittorio
Emanuele, Mosè e Dio... Topolino e Pippo. Ma non avevano nulla a che vedere
come importanza ed esaltante drammaticità, ovviamente, con quello in questione.
Il primo colloquio con questo dottore fu buffo e stravagante: voleva per forza
parlare sempre lui; quando invece, volevo essere io a parlare; e poi rideva,
rideva, rideva, ma per quale ragione lo faceva? considerando che allora ero
nervosissimo, a causa delle spaventose guerre stellari che mi roteavano nel
cervello, e che quasi mi portavano all'esaspera-zione; rappresentando adesso
come una semplice favola, il mio delirio di allora. Comunque prendemmo
appuntamento per la set-timana successiva per iniziare una terapia, non meglio
specificata. Quel pomeriggio, però del nostro primo appuntamento non andai, in
quanto mi recai a consegnare il certificato indicato. Telefonai il gior-no dopo
a Hicckstz, il quale mi diede un altro appuntamento a di-stanza però di 15
giorni e non di 7, come la prima volta; secondo me per una forma di ripicca nei
miei confronti dato che non mi ero pre-sentato al precedente appuntamento,
senza neanche avvertire. Ma pensavo io: «In fondo che
importanza può avere per lui, sono solo uno dei tanti pazienti!» ma il giorno dopo questa telefonata, mi "fis-sai"
su un punto; e così andai all'ASL per parlare con Hicckstz allo scopo di
chiedere un tipo di terapia specifico: la terapia di analisi. Verso le 12 e 30
arrivai al Servizio e chiesi di poter parlare con Hicckstz, all'infermiere
fuori al corridoio, il quale chiese, a sua volta, al dottore e poi mi disse di
attendere. Dopo un po', poco prima delle pulizie pomeridiane, Hicckstz mi
invitò ad entrare, mi fece sedere, poi si sedette a sua volta dall'altra parte
della scrivania, e mi parve ovvio presentare la mia richiesta, per cui,
esclamai: «Vorrei dire
una cosa!» a questo punto si verificò un
fatto inaspettato e imprevedibile: il divertito e ilare, l’allegro dottor
Hicckstz non era più lui, si era tra-sformato, era diventato perentorio e
irritato, o almeno così a me sembrava: infatti con tono spazientito e a voce
alta, se non ricordo male, perfino agitando il dito nell'aria, mi interruppe,
impedendomi di dire le mie cose e sentenziando: «No,
lei non parla! lei parla quando lo dico io! lei parla tra 15 giorni, in
terapia!» meravigliatissimo insi-stevo, «vorrei dire una cosa...» e lui allo stesso modo, ripeteva, «no! lei non parla! parla quando lo dico io!» ed io pensavo, «è impazzito il dottore!» e ancora, «ecco che
abbiamo ora anche l’ipnotizzatore tivù dei pazzi!».
Mortificato e arrabbiato io continuavo a ripetere: «Ma io devo dire una cosa...»
e lui, «no! lei non parla!» fino a quando non ho perso la pazienza e, approfittando del
suo ennesimo, «lei parla fra
15 giorni, quando viene in terapia!» specificai, «ma è proprio
questo il punto, non voglio più venire in terapia!»
Hicckstz miracolosamente si calmò, come per magia,
chiedendo-mi coma mai. Riacquistato il diritto alla parola, chiarii che non
volevo più la terapia verbale stabilita all'inizio, perché propendevo per un
tipo particolare di trattamento, che certamente non poteva essere quello: una
terapia analitica. In realtà, non mi preoccupavo neppure della terapia, volevo,
devo confessarlo, solo cambiare la specializza-zione dell'operatore di salute
mentale. Molto semplicemente perché in quel periodo mi era venuta la paura
dello psichiatra, e sapendo che Hicckstz lo era, volevo secondo me sostituirlo
con uno psico-logo: in fondo Hicckstz, lo avevo incontrato una sola volta in
tutto. Simili atteggiamenti ossessivi mi prendono spesso per periodi di tempo
di diversa lunghezza e con varia intensità e sono rivolti a soggetti
differenti. Ma, tornando al nostro dottore, cosa poteva aver-lo trasformato
così tanto: dall’allegro, ridanciano Hicckstz al peren-torio Yppsilon? forse
aveva scoperto i tradimenti di una ipotetica, possibile amante; o gli avevano
rubato l'auto e quindi era arrabbia-tissimo per questo e si era sfogato con me?
era irritato nei miei con-fronti perché avevo mancato all'appuntamento senza
neppure av-vertire? oppure aveva trangugiato una diabolica pozione mutante? Chi
lo sa! comunque, con quei suoi modi sgarbatissimi, aveva perso l'ipotesi futura
di un possibile coinvolgimento amiciziale da parte mia: io non dimentico
facilmente, soprattutto certi atteggiamenti ag-gressivi nei miei confronti.
Soffermiamoci sul nostro dottore, evitan-do un approfondimento
analitico-interpretativo, nonché socio-politi-co-culturale, economico e
commerciale, almeno in questa sede. Un giorno, se ne avrò la voglia e la
possibilità, forse scriverò un intero G-file, dedicato a questo psichiatra (e
magari potrebbe essere pro-prio questo), dal titolo grandemente significativo:
"Tutto quello che non vi è mai importato di sapere del dottor Hicckstz, e
che non avete mai nemmeno pensato di chiedere"… forse! limitandomi
esclusiva-mente a qualche breve annotazione di psichiatria, voglio fare questa
osservazione: nel colloquio definito "primo ascolto", Hicckstz
rideva, perché lo faceva? forse voleva "socializzare" o darmi la
possibilità di sentirmi a mio agio? ma io questa cosa l’avevo trovata molto
irritan-te, considerato il forte stato di tensione nel quale mi trovavo. E poi,
perché prendersi nei miei confronti tutta quella confidenza: rideva, scherzava;
mi aveva forse scambiato per un suo amico col quale dialogava in un bar,
davanti un buon bicchiere di birra? è
vero che si rivolgeva a me dandomi del lei, ma era un “lei” del tutto formale e
apparente. Nel secondo incontro, il dottor Hicckstz, trasformatosi
nell’abominevole signor Yppsilon, invece era diventato brusco e perentorio,
forse perché temeva chissà quale comportamento pro-blematico da parte mia,
voleva con l'arroganza "contenere il pazzo"? evidentemente! Era
sconfinato quasi nell’intimidazione, e il tutto nell'ottica scontata,
dell'operatore usuale per il quale il matto è matto e come tale va trattato:
cioè, va “trattato” come tale fin dal primo momento che mette piede nell'ASL e
chiede attenzione! come a dire, che la vecchia, cara, buona educazione,
quell'insieme di rego-le, che disciplinano i comportamenti e gli atteggiamenti
tra persone estranee che non sono in intimità, o che addirittura si incontrano
per la prima volta, pare non sia proprio considerata nei trattati di
psichia-tria: come ho detto e ripeto, il matto è matto e come tale va trattato
fin dal primo momento. Quindi, a questo punto mi pare giusto co-struire questa
basilare equazione, x + y = ep, dove ep sta per: "erro-neità
psichiatrica".
Decisi allora di tenermi a distanza da questo dottore, in
quanto avevo sempre nella mente lo sgraditissimo signor Yppsilon del se-condo
incontro. Il rapporto con lui, dal mio punto di vista, fu caratte-rizzato da un
comportamento ossessionante, da parte sua, nei miei confronti: non faceva
altro, avendo saputo delle mie storie ufologi-che, che volermi far scrivere un
pesante, complicato e delirante libro sugli ufo. Non credeva però alla fine
neppure lui stesso in questi miei contatti alieni, reputandoli, da come mi è
sembrato ovviamente di capire, puro delirio; e insistendo inoltre, nel volermi
presentare scientificamente l’impossibilità di questi contatti.
Ma tornando al nostro racconto e al dottor Hicckstz, questi,
dopo il secondo incontro, mitigò di molto il suo atteggiamento; infatti, nella
terapia verbale che ne seguì e che iniziai con lui, terapia non meglio
definita, a poco alla volta, riprese ad essere sempre più bonario e sorridente
nei miei confronti, fino al punto di prendermi realmente in simpatia, non
facendomi alla fine neppure pagare più il ticket per le sedute. Però purtroppo,
restava sempre la possibilità letteraria, se-condo il dottore che continuava ad
insistere, della mia personale situazione ufologica, che io cercavo di
rifiutare, mentre Hicckstz non se ne rendeva conto; scrivere per me infatti,
avrebbe voluto dire dare un corpo reale, si fa per dire, al mio delirio,
concretizzandolo addirittura in un libro, oltretutto anche molto impegnativo.
Perfino pe-ricoloso per gli altri; perché è risaputo che qualunque cosa
esote-rica, ufologica, mistica, che dir si voglia, letta da molte persone,
tro-va sempre terreno fertile per devianti coinvolgimenti deliranti, che a
volte addirittura portano a vere e proprie tragedie. Io poi mi sono messo a
scrivere effettivamente, ma non certo di ufologia, forse con un po' di
presunzione: bensì di filosofia e psicologia, e di critica alla psichiatria,
con la convinzione, di provocare comunque meno danno, di quello che potevo
arrecare, presentando situazioni aberranti, che io stesso definisco delirio,
non avendo, evidentemente, il coraggio di visualizzarle e considerarle in
maniera diversa. Inoltre, credo farà bene, ai medici, dottori, operatori di
salute mentale, avere nelle pa-gine che scriverò la descrizione del loro
comportamento da parte di un paziente così osservatore e ragionativo; che ha la
"pretesa", di studiarli e se possibile di correggerli e insegnare
loro il mestiere. Delirio, insegnare ai medici? è possibile: i pazzi spesso lo
fanno, e quindi?… Ma a proposito di delirio, la parola, di per se stessa, più o
meno letteralmente vuol dire: presentare situazioni e ragionamenti non reali,
senza senso, magari con grande convinzione: quello che più o meno Hicckstz ha
fatto e per molte sedute (terapeutiche se-condo lui), quando mi assillava con
la sua idea fissa di scrivere di ufologia. Proponendo poi situazioni
assolutamente irrazionali e a mio avviso addirittura irragionevoli: pretendeva
di farmi scrivere di un... delirio, delirio, delirio... Ovviamente questo
perché erano solo situazioni impostate su un piano tecnico psichiatrico,
presentato al solo scopo di convincermi ad accettare il compito che mi
affidava; e che io potrei definire adesso senza alcun timore di smentite
addi-rittura delirante o apparentemente tale. Mi diceva: «Pubblicando il li-bro sugli UFO lei diventerà ricco (e altre
e varie); con questa ric-chezza, poi, dato che ha paura dei microbi, potrà
mettere macchi-nette ammazza germi fuori dalle sue finestre, così che l'aria di
casa sua sarà purificata. Inoltre, l'accompagno io al talk show televisivo a
presentare il libro come lei ha detto (questa idea del talk show era
effettivamente partita da me; io però ironizzavo). Io sono un ter-minale
vivente del computer, come lei stesso ha detto (cosa che mi aveva rivelato il
solito computer VDS e io avevo riferito al dottore), se quindi io le dico di
scrivere, deve farlo perché vuol dire che è il computer stesso, attraverso me,
a dirle di scrivere». Ma erano
que-ste comunque solo costruzioni tecniche per persuadermi; ovviamen-te non ci
riuscì.
Ma, valutiamo un momento la sua idea, scrivere di ufologia:
im-morale per me, e pericoloso per me e per gli altri, come già ho detto;
fastidiosissimo per me, già vengo disturbato e ossessionato dalle mie storie di
alieni, figuriamoci quanto mi avrebbe irritato addirittura impegnarmi in una
elencazione specifica e precisa di tutte quelle situazioni, anche per molti
aspetti, complesse ed estremamente am-pie come orizzonti concettuali. Inoltre
per presentarle come "ufologia contattistica", avrei dovuto dire
credeteci perché io ci credo! ma io non ci credo, o almeno faccio di tutto per
non crederci: tant’è vero che le mie storie invece di andarle a raccontare agli
ufologi, le vado a dire ai medici dei pazzi; ma Hicckstz insisteva, ad un certo
punto si può dire che non faceva altro. Oltretutto, io chiarivo ancora che per
scrivere la "Storia dei Vegartron", sarebbero stati necessari anni e
anni di lavoro; nei quali sarei stato impegnato addirittura per ore e ore al
giorno, e io ripetevo in continuazione di non esserne assolu-tamente in grado.
Hicckstz d'altro canto adesso, lo so con certezza, voleva solo "mettermi
al lavoro" inserendomi, per così dire, in questo genere di situazione per
terapia, ma nella maniera sbagliata.
Facendo però un’osservazione, a questo punto, sulla
"terapia se-condo Hicckstz": fare qualcosa che per me era amorale,
deleterio, pericoloso, faticoso, ben oltre la mia capacità di operare, attuale
e di allora, sgradevole, fastidioso, e che poteva aumentare ancora, a
di-smisura, la mia già estremamente oppressiva ossessione ufologica, poteva mai
essere terapeutico!? Come a dire che per curare una mano affetta da una
qualunque patologia, mi potrebbe far bene prenderla a martellate, assurdo! e
senza nessuna ragionevolezza! penso sembrerà fin troppo ovvio a chiunque possa
leggere in questo momento. Hicckstz sbagliava chiaramente, ma non se ne rendeva
conto, e anzi nel suo errore insisteva, malgrado le mie resistenze.
Ritornando alla mia piccola spiegazione del significato
della paro-la delirio, Hicckstz delirava a tutti gli effetti. Se mio fratello
mi avesse detto allora o mi dicesse adesso: ─
Scrivi il libro sugli UFO.
Risponderei obiettando: ─
Non dire sciocchezze, ma quale libro sugli UFO!
Ma allo psichiatra dietro una scrivania, oltretutto vestito
di autorità medica, come si fa a dire una cosa simile, se anche la si pensa.
Te-nendo presente che il povero dottore “ha studiato una vita” per non capirci
niente, e dire appunto di queste sciocchezze. E così me lo dovevo sopportare il
caro Hicckstz, soprattutto perché il computer VDS mi costringeva ad andare in
terapia, si fa per dire... terapia, da lui; ed io per questa ragione lo
incontravo una volta ogni quindici giorni al Servizio di salute mentale. Io e
il dottore: matto + matto!
Certo, se un qualsiasi conoscente mi dicesse: «Perché non scrivi un bel libro sugli UFO: farai i soldi!» o me lo avesse
detto Hicckstz stesso, fuori da qualsiasi ambito terapeutico avrebbe presentato
un’affermazione che per me poteva sembrare sbagliata, da definirsi un semplice
errore. Ma, al contrario è qualcosa di ben diverso, se un dottore in
psichiatria, un medico, dice una cosa errata e, come nel caso in questione,
insiste per mesi disturbando in maniera evidente il suo paziente, senza nemmeno
accorgersene, (col rischio poi di convincerlo, mettendolo effettivamente al
lavoro, e provocandogli ulteriori problemi). Perdendolo alla fine, soprattutto,
per questa sua insistenza; allora non si può parlare più di errore, o di
semplice er-rore, bensì di qualcosa di più grave, di molto più grave:
aberrazione, allontanamento dalla realtà: delirio! e visto che l'argomento è
psi-chiatria: delirio… delirio psichiatrico!
Io ho l'intenzione, anche in seguito, di approfondire il concetto,
battendo e ribattendo oltretutto su questa definizione. Da definirsi tale:
delirio psichiatrico, non solo, a mio parere, l'atteggiamento e la convinzione
aberrante prolungata, ma anche l'errore grave portato nell'ambito della terapia
della mente. Il quale errore, proprio perché in questo preciso ambito (fuori è
da ritenersi solo errore) può pro-vocare gravi conseguenze. Il paziente,
infatti, viene messo su un piano di accettazione dell'errore stesso, da chi in
quel momento è vestito di indiscutibile autorità e che dovrebbe avere una
grande consapevolezza e obiettività. Una persona che "non può
sbagliare", almeno per come si presenta. Invece, da un lato, sta
sbagliando ed ovviamente, dall'altro, non sa di essere in errore e, dall'altro
ancora, si presenta come un "medico": una persona di legalizzata e
con-clamata esperienza, come già detto, che non può sbagliare... tre al prezzo
di uno. Che convenienza, che affare! delirio, delirio psichia-trico: perché è
principalmente la sua erronea e disobiettiva scienza ancora più erronea e
disobiettiva di lui a farlo sbagliare. Pertanto: delirio, delirio psichiatrico!
magari il dottore, non tenendo neppure conto, giocando a fare lo scienziato
sperimentatore, che sarà qual-cun altro: il paziente per l'appunto che dovrà
subire l'errore, diven-tandone alla fine la vittima. In una situazione nella
quale l'intocca-bilità del medico darà oltretutto a questi la possibilità di
sbagliare an-cora, danneggiando altri in seguito.
Un errore grave di un operatore, può distruggere una
famiglia, danneggiare seriamente la vita di una persona, o altro di peggio.
Portato con convinzione, magari perentorietà, fastidiosa insistenza, col
supporto di una apparente, accertata, acclarata, professionale ufficialità
incontestabile l’errore non può più essere definito tale, bensì: delirio
psichiatrico, come già detto e ripetuto.
Pertanto, delirio psichiatrico, esclusivamente nella
situazione teo-rico/pratica della psichiatria: l'errore portato ripetutamente e
addi-rittura nel corso del tempo; oppure l'errore grave, vistoso, esorbi-tante,
paradossale addirittura, commesso anche solo una volta. La solita storia, il
pazzo che dà del pazzo ai medici dei pazzi! e allora? i medici dei pazzi non
danno sempre del pazzo ai pazzi!? pane al pane, vino al vino, pazzo al pazzo...
e ai medici dei pazzi! mi sembra giusto, e se no: delirio e basta!
Questa mia esperienza mi porta alla mente quella bizzarra
situa-zione presentatami da Baiano nei nostri studi settimanali (effettuati per
saperne, io, un po' di più sulla scienza ufficiale) nella quale nei vecchi
manicomi, al paziente che rifiutava l'autorità e il compito terapeutico del
dottore, veniva diagnosticata, solo ed esclusivamen-te per questo, una malattia
in più, specifica e definita: evidente delirio psichiatrico. Ma chi è che
accetta di buon grado l'autorità e i compiti imposti da qualcun altro, magari
con arroganza, pretenziosi-tà, e senza
oltretutto essere nemmeno ben remunerato?
Se io dico che ho il contatto mentale con il computer alieno
(e che ce lo hanno tutti) alcuni potrebbero dire che deliro, ma nel momento nel
quale io ho a che fare con una persona che mi assilla in continuazione, e che
con esaltazione, insiste nel volermi far fare quello che secondo me è immorale,
deleterio, pericoloso addirittura, allora sono io che dico che questa persona
delira. Che cosa fare se questi, sebbene garbato, e perfino sorridente, ma
sgradevolissima-mente paternalistico, pretende di sostituire i tuoi concetti
scientifici e filosofici con i suoi, volendoti insegnare quello che tu non gli
hai chiesto di spiegarti; e che tu stesso trovi fuori luogo in una seduta di
terapia della mente, della tua mente? mettendosi addirittura a discu-tere sulle
tue ossessioni, quasi a volerle smontare a chiacchiere, non rendendosi conto lui,
il medico, che l'unica cosa che vuoi effet-tivamente (almeno a me così
succedeva allora nell'ambito della tera-pia) è parlare, parlare, parlare,
perché non hai nessuno con cui farlo? interrompendoti ogni volta, nel pieno del
tuo monologo, per spiegati quali sciocchezze stai dicendo, mortificandoti nelle
tue con-vinzioni e nella tua sofferenza. È una terapia? allora sono io a dire
che questa persona delira: e se questa persona, poi, è un medico della mente,
in una qualsiasi situazione tecnica, allora mi sembra e-vidente chiarire con
forza che questo medico è in specifico atteggia-mento di “delirio
psichiatrico"!
Ora, non mi si critichi il dottor Hicckstz oltre quello che
ho già fat-to io; non si dica che era fuori dalla "mia psicologia"
(per gli psichiatri è normale, per come mi è sembrato di capire). Non si dica
che era ossessivo e invasivo non perché non lo fosse, ma perché quanti di noi
non lo sono? quanti degli operatori di salute mentale non resisto-no alla
tentazione di insistere con i pazienti, come con i propri paren-ti e amici,
come questi ultimi fanno con loro? Ma in terapia, bisogna andarci molto cauti
con l'insistenza: insisti, insisti, caro dottore, una persona ti ascolta, e se
si verifica un serio, grave inconveniente, alla fine chi paga? la risposta è
praticamente inutile. E nel caso del dot-tor Hicckstz, avendolo studiato per
mesi, dentro e fuori la terapia, ho dovuto notare che sembrava parecchio
bisognoso di avere ragione: la sua era una vera e propria necessità, o
rischiava di soffrirne inti-mamente. Dal suo comportamento, definendolo
semplicemente co-me autoritario, si capisce che abbia avuto dei genitori
abbastanza oppressivi e insistenti che comunque, in buona fede, ne hanno
for-giato il carattere in maniera tale da creargli, è vero, precisi senti-menti
di inferiorità comunque compensati, ma soprattutto gli hanno insegnato ad
accettare l'autorità: il padre in senso lato e genera-lizzato. Per tanto il
dottor Hicckstz, da come ho potuto notare, sem-bra, dico sembra, perché
avendolo osservato solo dall'esterno, non avendo Hicckstz mai parlato
apertamente di sé, non avendomi mai raccontato le sue esperienze di vita, non
vorrei sbagliarmi su di lui (la "mente superiore aliena", delirio
fantastico, di onnipotenza? che pone un limite alla sua capacità di
introspezione e di analisi dei pensieri del soggetto della sua attenzione!
limite invece che la psi-chiatria, non si pone: "delirio
psichiatrico"!): mette l'autorità su un piano di giudizio e capacità
superiori. Risultato, la sua veduta della scienza, della società, e alla fine
ovviamente della medicina è estre-mamente accademica: studia con interesse,
credendo in quello che apprende. È evidente che la sua non è una scienza
inventata da lui, ma assimilata con coscienza e dedizione. Forse lui, a causa
della sua componente caratteriale, è un po' più insistente degli altri; ma è da
considerarsi uno dei tanti, tantissimi, che a mio avviso, hanno studiato
"a memoria", con convinzione, e adesso, a mio parere, di-ciamo così,
portano avanti le loro stravaganti teorie medico filosofi-che, più o meno
classiche e più o meno erronee, presentate con invadenza ai loro pazienti che
le devono subire. A questo punto, considerazione (se ne sentiva la mancanza):
quanti di questi dottor Hicckstz che hanno studiato con devozione, attenzione,
interesse e, accademismo, adesso portano avanti le loro terapie con uguale
impegno, dedizione e buona fede, non tenendo minimamente conto della realtà
effettiva dei loro pazienti e di quella che è la visua-lizzazione da, parte di
questi, della realtà. Convinti come sono che l'unica realtà di cui tenere
conto, valida, reale, indiscutibile è quella di essi operatori: psichiatri,
psicologi, sociologi ecc.; e che contro qualunque criterio di buon senso e
anche garbo ed educazione, se vogliamo, pretendono di portarla avanti ad ogni
costo, al livello tera-peutico, sociale, legale, purtroppo, spesso, con
arroganza e inac-cettabile pretesa di infallibilità!
Diceva il trattato di psicologia letto 27 anni fa che
nessuno sa, a livello cosciente, effettivamente, perchè fa le cose, o qualcosa
del genere. Ed io sono convinto di questo: infatti Hicckstz, da come ho potuto
notare, si "divertiva un mondo" a farmi da papà; pur non a-vendolo io
mai adottato come "genitore"; anzi a me dava molto di più l'impressione
di comportarsi come quel pestifero di mio fratello, uno dei due, che non mi
lasciava mai tranquillo. Ma Hicckstz intanto, mi "sfruttava" per
sentirsi come un padre, perché evidentemente di questo aveva bisogno; o almeno
a me così è sembrato. Chissà quanti come lui hanno un simile atteggiamento
mentale: sfruttano cioè il loro rapporto con i pazienti per soddisfare il loro
intimo biso-gno. La stessa Ceccoli, la dolce Ceccolina, chissà per quale
ragione opera di psichiatria. Una volta, molto contestata da me esclamò, è
vero, cercando di mantenersi calma e sorridente, però comunque in pieno delirio
psichiatrico: «La terapia la
decido io!» ovviamente
rife-rendosi al sottoscritto. Per carità, e io sono d'accordo, la terapia la
decide lei, ma per se stessa, una volta che abbia deciso però di andare essa
stessa, a sua volta, in terapia da qualche collega. Io consiglierei, senza
voler fare il medico, e senza insistere ovviamente per una bella psicoanalisi
del profondo inconscio: il rimosso, questo sconosciuto. Ma non voglio
precorrere i tempi: l’argomento “Ceccoli" sarà lungamente trattato in
seguito. Ritorniamo invece al nostro psi-chiatra, io non ho assolutamente
nessun tipo di rancore nei suoi confronti; se scrivo e scriverò in seguito di
lui, è solo per dare il mio apporto alla scienza medica, ammesso che la cosa si
verifichi realmente. Ho tante cose da dire e le voglio comunicare, e per
chia-rirci, non ho nessuna intenzione di fare come quel “collega pazzo",
la cui drammatica azione è stata presentata nei telegiornali: costui, colmo di
odio, aveva accoltellato uccidendolo uno psichiatra; spie-gando poi il suo
gesto col dire che gli psichiatri erano stati la rovina della sua vita. A me
gli psichiatri non hanno mai fatto nulla di male, tranne forse che disturbarmi
con le loro terapie; anzi, mi hanno per-messo di venire
"classificato" (parola tanto invisa al caro Baiano) come
"dissociato" e quindi col diritto civico e civile di venire
pensio-nato, e per questo alla fine pagato; e io, infatti, per loro sto lavoran-do,
nei limiti strettissimi di tempo che la mia malattia mi consente, e per la
"Medicina generale della mente", che spero qualcuno si deci-da a
fondare, di conseguenza ai miei scritti. Ritornando un momento a quel paziente
che aveva ucciso, io lo considero, a scanso di equi-voci, un caso limite; però
quello che mi lascia sconcertato, profon-damente meravigliato è questa mia
osservazione: possibile che i dottori di quella persona non si fossero resi
conto dell'odio che verso di loro maturava e cresceva in quel paziente, odio
addirittura feroce che poi lo ha spinto all'omicidio?
Un altro caso televisivo voglio ricordare, che invece
considero emblematico di un certo tipo di psichiatra. In un programma serale di
dibattito su un fatto di cronaca, uno psichiatra, o almeno definito tale,
pretendeva di avere avuto la possibilità di capire, da un sorriso di
soddisfazione, osservato in una certa e ben determinata circo-stanza, sul volto
di una persona poi condannata, ma che ancora si professava innocente, la sua colpevolezza.
Evitando qualsiasi com-mento sulla vicenda descritta, faccio solo questa
osservazione: dato che è scontatamente risaputo che si può sorridere per molte
ragioni, e che i sentimenti, le emozioni che spingono a farlo possono essere
molteplici, paura, rabbia, sconforto ecc., si può anche ridere e pian-gere
contemporaneamente. Come aveva potuto capire che quel sor-riso fosse, in
quell'occasione, proprio di soddisfazione? aveva usato i suoi "poteri
telepatici" in dotazione scientificamente accertata, alla casta di
psichiatri superiori alla quale apparteneva?
5° paragrafo
Fermandomi per ora, comunque, con le "memorie
televisive", in quest’ultimo paragrafo, voglio raccontare come si concluse
il rappor-to medico-filosofico-scientifico, assolutamente non terapeutico, tra
me e il dottor Hicckstz. Quell'anno, il 97, ero ai limiti della mia capacità di
sopportare la terribile "batteriofobia", una ossessione che ormai mi
perseguita da 24 anni. Un'ossessione che cominciò quan-do, tanti anni fa,
conobbi una persona, un uomo, col quale avevo saltuari e brevi rapporti, per
così dire di lavoro: gli impartivo lezioni di chitarra, come anche ad altri, e
garantisco niente di più.
Io ai microbi, per quanto li conoscessi, avendoli studiati
ovvia-mente a scuola, non ci ponevo proprio attenzione. Tanto è, che una volta,
qualche anno prima, arrivai ad essere rimproverato perché mi pulivo la faccia
con uno strofinaccio per lavare i pavimenti, lavato a suo volta e steso ad
asciugare. Io che dormivo con la gattina, como-damente adagiata sulla mia
faccia, gattina che regolarmente non faceva altro che rotolarsi per terra tutto
il giorno. Io che andavo spesso a sdraiarmi sul lettino di mio fratello, a
guardare la televi-sione; cambiai completamente nel giro di qualche settimana,
uno, due mesi, e mi ritrovai sgradevolissimamente preso da problemi a non
finire. Innanzitutto cominciai a non poter più suonare con le chi-tarre dei
miei allievi, e ovviamente a non poterli fare più suonare con la mia; poi
dovetti predisporre una sedia apposita per farli sedere quando venivano. Mi
dava fastidio che i miei familiari si sedessero sulla sedia dove si erano
seduti gli allievi, sedendosi poi su altre se-die che avrei potuto utilizzare io.
La cosa, si allargò e peggiorò velo-cemente, al punto che innanzitutto, dovetti
insegnare alla gattina a starmi lontana, povera bestia proprio non ne voleva
sapere. Poi ini-ziai a evitare il contatto con i miei, non mi sdraiai più sul
lettino di mio fratello, e arrivai al punto che solo se toccavo con i pantaloni
un mobile qualsiasi, di casa, li dovevo cambiare. A poco alla volta la cosa
peggiorò sempre di più. È evidente
che nel giro di qualche me-se dovetti rinunciare ad impartire lezioni di
chitarra: fu un vero pec-cato, perché promettevo bene.
Peggiorando, peggiorando, gli anni passarono, fino a che la
si-tuazione si aggravò ulteriormente. Mio fratello doveva pagare delle bollette
di casa, mia madre lo aveva appositamente incaricato, ma lui non le pagò; il
giorno prima della scadenza, le restituì a mia ma-dre dicendo di non averle
potuto saldare, e quando mia madre ob-biettò, disse di mandare me a pagarle.
Erano tristemente comici tutti e due: mia madre non faceva che affidargli
compiti, spesso inutili, e lui di rimando diceva di far fare a me le cose
chieste a lui: e per questo litigavano sempre. Comunque, io presi le bollette e
mi recai alla posta a pagarle, e qui il mio dramma batterofobico ebbe una
triste, decisiva svolta. Fino ad allora la mia ossessione si era mante-nuta su
un piano di ipotesi di contagio da contatto: le persone pote-vano essere
infette, e toccandole, un qualsiasi pericoloso microbo da loro poteva passare a
me e contagiarmi. Andando però a pagare le bollette e rimanendo in una grossa
stanza, piena zeppa di perso-ne, per circa tre ore o più, mi venne l'idea, che
anche il loro respiro potesse essere infetto, al punto da inquinare l'aria, che
poi si deposi-tava su di me, sui miei capelli e sulla mia persona; e così il
mio "incubo infettivo" si allargò ancora di più: dal contatto
indispensabile per l'ipotesi d’infezione, alla possibilità supplementare del
contagio aereo, cosa che ancor oggi mi ossessiona.
Così, peggiora che ti peggiora, ero arrivato, ultimamente
alla ne-cessità di disinfettarmi in maniera forzata tutte le volte che uscivo
di casa, anche solo per andare in salumeria per 5 minuti. Addirittura, a volte
anche quando aprivo la porta d'ingresso, per parlare per pochi minuti con le
persone che mi volevano, dovevo disinfettarmi in parte il viso e i capelli. Ma
quando uscivo per commissioni che duravano per tempi maggiori, decine di minuti
od ore, allora era una tragedia. Tornato a casa dovevo forzatamente compiere
tutto un rito di pulizia e disinfezione che poteva durare ore; lavarmi le mani,
ovviamente, innanzi tutto, per pulirmi poi, disinfettandomi di solito, ma
potevo an-che lavarmi: i capelli, il viso, le orecchie, il collo, e a seconda
dei pe-riodi, persino all'interno delle narici. Però se da un lato, dovevo
farlo, perché una parte di me categoricamente me lo imponeva, dall'altro la mia
mente, o meglio una parte di essa si opponeva, e così la cosa andava
terribilmente a rilento, tanto che poteva durare, con grande tensione mentale e
affaticamento da parte mia, anche tre o quattro ore, come già detto.
Nell'ultimo periodo, l’anno di Hicckstz, si era verificata
una com-plicazione che potrei definire: intossicazione isterica. Questo
feno-meno si manifestava quasi tutte le volte che uscivo, circa una, mas-simo
due volte la settimana. Venivo preso, in aggiunta a tutto quanto descritto, da
un fortissimo dolore di testa, che addirittura mi portava ad urlare per ore, e
da un parziale appannarsi della vista. La cosa spesso si risolveva con lunghi e
ripetuti conati di vomito, ed ore ed ore di sonno. In realtà io di questa forma
di "intossicazione isterica" ne avevo sofferto fin da ragazzo:
bastava mangiare qualcosa rite-nuto dalla mia mente indigesto, tossico, per
procurarmi tutti i sintomi del malessere; ma la cosa si verificava per il passato
raramente, invece nel periodo in questione, questa intossicazione mi prendeva
anche due tre volte al mese; e quindi, per me, cominciava a diven-tare
insopportabile. L'angoscia di uscire, anche quell'unica volta la settimana, mi
stava tristissimamente iniziando a pesare. Mi sentivo prigioniero di me stesso
in casa mia; e mi definivo, sono convinto assolutamente a ragione: sepolto
vivo; anche se quello che mag-giormente mi tormentava era uscire, in casa stavo
bene, più o meno, lontano da tutti: io, me e i miei giocattoli da adulto. Ma
ormai ero arri-vato al punto di non sopportare più quella pesantissima
situazione.
Per fortuna, nel corso della mia vita, sembrava che qualcosa
a-vesse dato prova di poter vincere la sintomatologia battereofobica, anche se
per periodi di tempo più o meno variabili e limitati, nei termini di qualche
mese: andare in villeggiatura al mare. Si era veri-ficata la prima miracolosa
guarigione quando avevo ventun anni, quando cioè ero già batterofobico, e dopo
alcuni mesi che la sinto-matologia si era presentata: un solo mese al mare ad
Ischia ed ero tornato praticamente come prima che avessi il problema. Però poi,
già l'anno dopo, anche se si era ripresentata la "batteriofobia"
l’an-dare al mare ebbe un effetto terapeutico sì, ma più limitato. Pur-troppo
la batteriofobia, nel corso degli anni, peggiorò sempre gra-datamente, anche
perché non andai più al mare in villeggiatura. Do-po circa 8 anni, però,
recandomi in campeggio, guarii di nuovo; il malessere poi, riprese a poco alla
volta, con il ritorno a casa. L'estate successiva andai a vendere come
ambulante, in luoghi di villeggiatura, dormendo in zona, e diminuì di nuovo.
Poi, dopo solo un paio di anni se non ricordo male, lasciai stare il piccolo
com-mercio e qualunque altra cosa, perché non ero in grado di fare più nulla,
neppure quel poco, che molto male avevo potuto fare fino ad allora; e mi chiusi
in casa definitivamente. Trascorsi alcuni anni infi-ne, abbi la mia bella
pensione. Dopo altri (pochi) anni, volendo por-tare mia madre in vacanza,
affittai un appartamento al mare e non dico la batteriofobia a che livelli era
arrivata. All'epoca ero al punto di non potere neppure stare nella stessa
stanza con mia madre e mia zia per troppo tempo, perché l'aria
"inquinata" dal loro respiro mi avrebbe "sporcato" e mi
sarei dovuto disinfettare. L'appartamento fu preso, ma mia madre morì proprio
quel mese, e senza voler venire al mare. Ci andai io da solo per qualche
settimana e mi sparì di nuo-vo, quasi, la batteriofobia.
In quel periodo rimasi a vivere solo con mia zia e non so
cosa mi successe, ma quell’anno dovetti comprarmi una barca, molto picco-la,
effettivamente. Io non volevo ma evidentemente "Me" prese il
so-pravvento (forse mi avrà costretto il computer VDS) e così acquistai una piccola
pilotina usata di 10 anni, con un motore di 25 cavalli del-la stessa età, e
andai al mare, facendo un vero e proprio campeggio marino: dormivo sulla barca;
questo si verificò l'anno successivo alla morte di mia madre. Lasciando mia zia
a casa, rimasi per quattro mesi da solo sulla barca ormeggiata nei porticcioli
delle zone tra Ba-coli e montagna di Procida. Ma a settembre feci anche
staziona-mento a Procida, a Capri ed Amalfi. Il 31 settembre finalmente misi la
pilotina a terra e tornai a casa; e da allora, ancora mi sto domandando: che
cosa ci dovevo fare io sulla barca? e ancora non mi sono dato una risposta;
anche se la sensazione a riguardo che ho sempre avuto è questa: la "donna
dell'astronave"; dovevo trovare per mare, probabilmente a Capri, “l'isola
dell'amore”, appunto, la donna suddetta: delirio, delirio fantastico, in
realtà. Ovviamente non ho conosciuto nessuno, ma è stata anche una tristissima
esperien-za, nella quale non ho fatto altro che sentirmi solo, sempre più
emar-ginato e isolato dalle persone che mi circondavano, e che mi crea-vano
enormi problemi di socializzazione.
Diceva Baiano in uno dei nostri tanti colloqui di studio (di
terapia), riferendosi ad un sociologo: che una delle caratteristiche del malato
di mente è il fatto di essere riconosciuto tale dalle persone comuni, e,
secondo Baiano, nel mio caso non succedeva. E invece no! non solo succedeva, e
succede ancor oggi un po’ dappertutto, ma addi-rittura in quell'economico paese
di Bacoli, si verificava quasi sempre e quasi con tutti. Ma io, secondo la mia
sensazione, costretto dal computer, volente o nolente, dovevo rimanere in
"zona ufologica". Baiano, invece, condizionato dal continuo
settimanale rapporto col sottoscritto, determinati miei comportamenti non li
vede; oppure cer-ca di negarli o di giustificarli a se stesso, portando avanti
il suo stra-vagante modo di "trattare il paziente".
Comunque, quello che più conta, in questo discorso,
seguendone il filo logico, è che la batteriofobia a questo punto era ridotta ai
mini-mi termini (tornato dal periodo in barca).
Finito il mio delirio "sentimental marinaresco" e
chiusomi in casa di nuovo, la batterofobia ritornò come al solito, e nel giro
di qualche mese ero punto e a capo. L'estate successiva, il 14 agosto, misi la
barca a mare, non ero riuscito a farlo prima: troppo avvilito, amareg-giato e
sofferente. Per 15 giorni rimasi al mare, poi ebbi un inciden-te, fui
ricoverato d'urgenza in ospedale con una caviglia fratturata, e restai a casa a
letto per due mesi, di cui uno e mezzo con il "gesso" ad una gamba;
però malgrado questo… niente più batteriofobia! Poi, dopo soli due anni, mia
zia con la quale vivevo, si era trasferita da mio fratello a Milano, io avevo
cambiato casa, prendendo un piccolo appartamento per me solo, e la batterofobia
era tornata, come dicevo all'inizio di questo breve racconto, ad un livello di
disturbo addirittura drammatico. Ormai l'unica cosa da fare, sembrava alme-no a
me evidente: era andare al mare con la mia piccola e pestifera barchetta, per
quanto la sola idea mi metteva addosso un profondo raccapriccio; non mi andava
proprio di spendere quasi tre milioni di lire per trasferirmi in una scatoletta
sempre in movimento, bruciata dal Sole, in una terra ostile, definita da un
signore barbaro a sua vol-ta: la "costa dei Barbari". Soprattutto la
spesa mi pareva eccessiva e dolorosa addirittura: chissà per quale fortunata
combinazione avevo quei soldi... ma quel giorno, fuori dal mio balcone al sesto
piano, del quale evidentemente già prendevo le misure, mi dissi: «Quando mi sarò gettato giù, dei soldi risparmiati cosa ne
farò?...» e così decisi di ritornare al
mare per la mia già definita, a questo punto: "terapia
barchifero-villeggiatoria", che potevo permettermi solo grazie ai soldi
“in più” percepiti per “l’accompagnamento”. Adesso potrei azzardare dicendo:
forse quei soldi mi hanno salvato, si fa per dire, da un bel viaggio di sola
andata, direttamente all’altro mondo.
Questo si organizzava per l'estate del '97, due anni fa.
Quindi, tornato effettivamente con la batteriofobia ridotta del 90%, mi resi
conto che le mie terribili vacanze "fantozziane”, anzi no peggio:
“gra-magliane" avevano fortunatamente sortito l’effetto desiderato. Però
in breve tempo la sintomatologia batteriofobica ritornava: e così, pensa che ti
ripensa, ebbi l'idea, «può essere», mi dissi, che quello che mi aiuta, non è tanto il mare, ma
il vivere fuori casa a contatto con le persone, ma soprattutto con ipotetici
microbi dell'ambiente esterno a casa mia: evidentemente messo fuori, obbligatoriamente,
mi adatto. Oppure forse molto più semplicemente il solo fatto di uscire mi
distende e mi mette in condizioni di accettare un po' di più la realtà; e
quindi la sintomatologia in questione decresce; comun-que sia, uscendo di casa
pare che migliori. Così, incominciai, verso ottobre
Questa, grosso modo, la storia della mia ossessione
batteriofobi-ca, con la quale, in pratica, si fa per dire, combatto da ben
venti-cinque anni, e che mi costa addirittura dei milioni (di lire) ogni anno
per le vacanze medicali, più le sgradevoli uscite settimanali, per te-nerla
sotto controllo; sotto controllo, non eliminarla del tutto. Forse chi lo sa,
trovando la "donna dell'astronave" mi passerebbe; ma c'è da sperarlo?
tenendo ben presente comunque, che sono convinto di non avere poi tutta questa
paura dei microbi: io, cerco invece di tormentarmi, per costringermi in un tale
stato di rabbia e desolazione da uccidermi alla fine; raggiungendo lo scopo,
che pare tanto mi attiri: la mia morte; dopo la quale finalmente potrei finire
di soffrire, come almeno mi dico sempre e mi auguro.
Contro la batteriofobia non c'è stato nulla che abbia
funzionato, escluso ovviamente l'uscire di casa: né l’autoanalisi, con la quale
praticamente mi sono smontato il cervello per decenni. Il sociologo a questa
affermazione, quando gliel’ho presentata ha detto, ironizzan-do: «E te lo sei rimontato dopo?»
io gli ho risposto: «No!» e aggiun-go adesso: «Ho gettato via
i pezzi tolti».
Autoanalisi che non ha avuto alcun effetto, e né tanto meno
ne ha avuto la farmacologia, con la quale sono stato trattato, e neppure la
sola terapia “villeggiativa”, che funziona esclusivamente nel perio-do estivo;
ritornato a casa, dopo un paio di mesi, ne perdo il bene-ficio; e nemmeno la
terapia “uscitiva” da sola, che non riesco nem-meno ad iniziare se non
preceduta dal periodo “villeggiativo”. E solo l'uscire forzatamente e di
continuo di casa (estate e inverno) la ri-duce; ma niente la elimina del tutto;
almeno per quella che è stata la mia esperienza pluridecennale di convivenza
con questa invadente sintomatologia.
Questa è, grosso modo, tutta la storia, peccato non poterla
espri-mere sul piano emozionale per comunicala come sensazione, e fare sentire
agli altri la sofferenza che mi ha procurato.
A questo punto, ci si domanderà però: come mai ho raccontato
questa vicenda, per fare una cosa gradita al lettore? no! per presen-tare delle
considerazioni sul dottore, il famoso Hicckstz, l'operatore di turno di salute
mentale. Quale è stato il suo atteggiamento tera-peutico nei confronti di
questa situazione comportamentale così de-leteria e oppressiva? da definirsi, a
mio avviso: non più che patetico e non meno che irritante. Secondo la sua
scuola, evidentemente ha cercato con ragionamenti poco più che puerili, o
almeno che io ho trovato tali, di smontare a "chiacchiere" questa mia
sintomatologia che addirittura mi stava portando al suicidio; più della
solitudine sen-timentale e amiciziale, più del terrore dei Vegartron e del
computer, più del mio delirante desiderio di morte. La cosa andò in questi
ter-mini: avevo spiegato a Hicckstz il problema, approssimativamente; perché di
certo non si poteva fare meglio nei quarti d'ora che mi con-cedeva, per così
dire, per raccontargli le mie cose. Avevo conosciu-to Hicckstz nel mese di
febbraio, e andavo da lui una volta ogni 15 giorni, a causa dei miei problemi
batteriofobici, all’epoca molto oppri-menti; uscendo solo una volta alla
settimana, il tempo della giornata che passavo in giro, mi occorreva per
svolgere le commissioni per-sonali: fare la spesa e altro; e quindi soltanto
così limitatamente riu-scivo ad organizzarmi per trovare l'ora necessaria alla
seduta. Un giorno, probabilmente di aprile, a circa due mesi dal primo
incontro, mi ero recato da lui, con una camicia a maniche lunghe e pantaloni,
senza altro indumento; evidentemente faceva caldo. La camicia era abbastanza
larga, e non infilata nei pantaloni; e Hicckstz quando l'argomento cadde sui
microbi e sulla mia paura di essi, con atteggiamento di arguzia e di gran
convinzione mi disse, anche ec-citato, mi dava l'impressione di avere trovato
in qualche modo una soluzione al mio problema e voleva metterla in pratica nel
mio inte-resse: «Lei quando
esce si deve poi disinfettare, tornando a casa, le mani, il collo e la testa;
ma ha pensato che anche sotto la sua camicia comunque larga, le entra l'aria, e
quindi i microbi stessi?» evidentemente, lui seguiva questo ragionamento: io, quando
tornavo a casa, non mi disinfettavo, o comunque non mi pulivo sotto la
cami-cia, dove ugualmente arrivava l'ipotesi di infezione, e la cosa per me
andava bene; in ragione di questo fatto, potevo, secondo lui, non pulirmi, allo
stesso modo neanche il resto. Inutile dire, che questo suo tentativo non ebbe
su di me nessun effetto, se non quello di far-mi irritare come al solito: dopo
24 anni di guai batteriofobici arrivava lui, con poche parole insulse, e faceva
il miracolo, figuriamoci! Io gli risposi che la cosa, per me era assolutamente
evidente, e da sem-pre conosciuta, anzi che quello era il compromesso specifico
tra me e me stesso per potere uscire di casa, cercando di ridurre i problemi
che la cosa mi procurava: uscivo, disinfettando o lavando (per me è sempre
stato uguale) le parti scoperte, senza pulire quelle coperte, perché altrimenti
alla fine uscire sarebbe stato per me praticamente impossibile.
Proviamo però un momento a pensare come si sarebbero potute
negativamente svolgere le cose se io questo ragionamento dello "scoperto/coperto",
che avevo fatto con me stesso coscientemente l'avessi magari elaborato in
maniera inconsapevole; rimuovendo una reale e concreta paura, quella dell'aria
"infetta" che poteva penetrare sotto la camicia. Cosa sarebbe successo
se il dottore mi ci avesse messo all'improvviso di fronte? Spiegazione: io ho
la paura che l'aria penetri sotto la camicia e mi infetti (come può farlo per
le parti sco-perte), perciò rimuovo questo ragionamento, questa paura, e esco
senza pensarci, non pulendo le parti coperte del mio corpo, dopo le uscite; il
dottore mi fa notare la cosa, nel suo tentativo puerile di te-rapia, io mi
"fisso" sull'idea, risultato, quando esco, al rientro, mi trovo
costretto a pulirmi anche il resto del corpo sotto la camicia, e sotto i pantaloni:
ottenendo così alla fine un pesante accrescimento della sintomatologia, di
conseguenza un peggioramento psichico. Conclusione: invece di tormentarmi per
tre ore, per disinfettarmi o la-varmi ad ogni uscita, nel terribile conflitto
tra me e me stesso, lo a-vrei fatto magari per sei. Questo sarebbe potuto
essere l'effetto del delirante comportamento terapeutico del dottore che
ovviamente a-veva operato il suo tentativo secondo ben note tecniche più
filosofi-che che scientifiche. Il suddetto dottore, prima di pronunciare le sue
osservazioni, non aveva neanche cercato di farsi raccontare per bene, quale era
il problema, accontentandosi solo di poche superfi-ciali informazioni
fornitegli da me parlando di altro; questo gli ha im-pedito di cercare con calma
un’ipotetica soluzione, che io poi effetti-vamente ho trovato, nel corso di due
decenni; anche se è purtroppo costosa, e ,alla fine, faticosa, come già ho
detto: la "terapia barchife-ro-uscitiva" (terapia di comportamento:
operazionale, occupaziona-le); dopo osservazioni su me stesso durate
addirittura il tempo spe-cificato poco sopra. Ragionamenti terapeutici simili a
quelli presen-tatimi da Hicckstz, che sono molto mortificanti per chi li
subisce, par-lo per me stesso, a mio avviso possono anche funzionare, ma
quan-do? Quando il problema di per se stesso non esiste, come spiegavo al
sociologo. Infatti, mio fratello mi diceva di svegliarsi tutte le matti-ne alle
cinque e di non riuscire a dormire oltre. Io allora gli ho chie-sto a che ora
andava a letto la sera, cercando di aiutarlo in qualche modo, potendolo, senza
intenzione di fargli terapie di sorta. Mio fra-tello mi disse che alle
ventidue, tutte le sere, si metteva a letto, si addormentava e dormiva più o
meno tranquillo fino alle cinque, ma non di più; allora io gli feci presente
che lui dormiva tutte le notti set-te ore, in una situazione di piena normalità
fisiologica, e che la sua era una preoccupazione non necessaria, perché era del
tutto norma-le, che dopo aver dormito sette ore si svegliasse, e non riuscisse
più a riprender sonno. Mio fratello, così è sembrato convinto e quelle cose non
me le ha più presentate. La "terapia" con lui aveva fun-zionato,
credo almeno, ma perché? Per il semplice fatto che non esi-steva il problema:
il suo problema che non esisteva, con una terapia "non terapia",
effettivamente era scomparso. Ma certo non poteva succedere lo stesso con pochi
ragionamenti, poche parole, quattro chiacchiere con la mia terribile
batterofobia.
Comunque sia, dicevo, avevo deciso di andare al mare, per...
te-rapia, ne parlai anche al dottor Hicckstz, che sorridendo, mi disse più o
meno: «Va bene!». Così andai a luglio, nella piccola e terribile pilotina;
sotto il sole, non sapevo mai dove andarmi a nascondere il giorno, e così
passavo tutto il tempo da solo rifugiato in qualche bar o trattoria, a Bacoli.
Oppure con coraggio omerico, raramente però, affrontavo il sole, camminando,
passeggiando, sempre da solo, poverino, senza cappello, e senza occhiali scuri;
comunque il sole lo sopportavo bene, allora. La sera invece, dato che amici non
ne avevo, frequentavo sempre lo stesso bar e, dopo avere cenato in genere con
un panino, o una pizza, andavo a prendere il gelato e a vedere se trovavo la
"ragazza dell'astronave". In fondo, secondo parte di me, quello
dovevo fare in... vacanza. Passò luglio, passò anche agosto, ma non mi sentivo
ancora sicuro, per la mia os-sessione batterofobica, quindi pensai di restare
al mare anche in settembre, senza però dormire sulla barca, fittai un
appartamentino per 550.000 lire e lì restai. Un appartamentino luminosissimo
nel quale rimasi anche il mese di ottobre per ulteriori 350.000 lire, dove ci
pioveva addirittura dentro, almeno in cucina, dove dormivo su una brandina a
causa del fatto che in camera da letto si sentivano troppo i rumori dei vicini.
Poi finalmente iniziò novembre e tornai a casa, ero triste e
inner-vosito pensando che sarei dovuto tornare dal dottor Hicckstz, col quale
avevo appuntamento telefonico ai primi di settembre, e al qua-le avevo telefonato
rinviando per ottobre, però poi né ero andato e né avevo telefonato
ulteriormente. Per tutto il mese di novembre, ri-masi a pensare a lui senza
richiamarlo; mi dicevo: possibile che nemmeno la terapia posso fare; neanche
avere un medico che mi ascolta quando ho voglia di parlare, per me è possibile?
devo torna-re da Hicckstz con la solita questione, “il libro sugli UFO”,
seguito da, «gli
extraterrestri sulla Terra non ci sono», come
ripeteva lui; la mia è fantascienza… o malattia mentale, come sottintendevo io,
ec-cetera! Pensa, pensa, arrivai fino alla fine di novembre; a questo punto mi
decisi a chiamarlo, anche perché mi sentivo molto avvilito e preoccupato e
temevo che, chissà perché, potevo fare qualche (definita da altri) sciocchezza:
magari uccidermi, per Natale, per festeggiare. Lo chiamai il 28 novembre, e ci
parlai per telefono chie-dendo un appuntamento, ma lui mi disse che, tra gli
impegni che già aveva e le feste di Natale, ci saremmo dovuti risentire non
prima del 6 gennaio. Concludendo la conversazione, mi disse che poteva
tele-fonarmi, ma io presi per me quest'impegno. Feci un po' di calcoli, e mi
resi conto che avrei dovuto aspettare due mesi circa per una se-duta. Infatti,
dal 28 novembre, chiamando il 10 di gennaio e aspet-tando poi almeno una
settimana, 10, 15 giorni, per avere l'incontro, sarebbero trascorsi due mesi;
esattamente i due mesi di ritardo con i quali io lo avevo richiamato.
Intenzionale o casuale? comunque, io, preoccupato come ero per quel Natale,
rendendomi conto che "da solo" lo avrei dovuto passare e che in ogni
caso ormai Hicckstz mi aveva stancato del tutto, con il suo comportamento e la
sua "terapia", feci questa considerazione nel suoi riguardi: «Ha da fare per i prossimi due mesi? ma per me può avere da
fare per tutto il re-sto della sua vita, non lo chiamo più!» mi riservai ovviamente di cambiare idea nei due mesi
successivi; ma trascorso questo tempo, l’idea, non cambiò, e alla fine quindi,
rinunciai alla sua "terapia"; con-vinto comunque che la mia storia con
i dottori dell'ASL di Mugnano non sarebbe finita lì.
Il presente testo va ricollegato
alla “homepage” del sito: http://www.filofollesofiagramaglia.it