FILOFOLLESOFIA

“TRA SCIENZA E DELIRIO”

 

 

 

 

 

Nella foto di copertina, ci sono io:  il filofollesofo, Giovanni Grama-glia, nato a Napoli, nel 1954. Mi presento ora nella ristampa del mio libro editato nel 2003; ed è infatti da allora che scrivo. Nella foto di co-pertina porto gli occhiali scuri, non perché “acchiappano”, come diceva uno stupido conosciuto tanti, tanti anni fa: ma a causa del fatto che nel 1998, quando sciaguratamente fui messo a scrivere, mio malgrado, dal “branco psichiatrico” dell’Asl Na 2, subii uno sgradevole indebolimento agli occhi e una forte sensibilizza-zione alla luce, per cui, da allora, quando esco, se fuori c’è il Sole, an-che d’inverno, e a volte perfino se piove, le devo indossare. Lenti da sole, che prima non avevo mai usato perché ritenute sgradevoli: mi piace molto, infatti, il Sole e le giornate molto luminose, specialmente esti-ve… mi piacevano, una volta! Ulti-mamente la cosa si è aggravata e sto cercando di risolverla in qualche maniera: pare che la soluzione sia quella di non metterle più, per quan-to il Sole mi disturbi; chissà se ne avrò un beneficio?

La mia vita? e quale può mai esser stata? ho conseguito soltanto il di-ploma di scuole medie superiori, liceo classico; sono stato solo tutta la vita; non sono riuscito a nulla se non a vivere la mia malattia; ed ora, mi preparo molto tristemente ad una sofferta vecchiaia nella più buia e-marginazione: la “psicoterapia scrit-tifera” (operazionale), durata tanti anni, non mi ha aiutato minimamen-te, anzi, fin dall’inizio, mi ha addi-rittura danneggiato.

 

GIOVANNI GRAMAGLIA

 

 

 

 

 

COPERTINA COMPLETA DEL LIBRO RISTAMPATO NEL 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo di questo libro

Del quale sono unico detentore dei diritti,

In qualità di autore assoluto,

Fu già pubblicato nell’anno 2003

Dalla casa editrice: “Sensibili alle foglie”,

Nell’ambito del progetto “ARSAN B”,

Dipartimento Salute Mentale, Napoli 2

(Progetto a me rimasto del tutto sconosciuto).

Casa editrice, alla quale concessi,

Mantenendone la proprietà, unicamente

L’autorizzazione alla stampa di mille copie,

Senza compenso in denaro; al solo scopo

Cioè, di avere la soddisfazione

Di vedere pubblicata l’opera.

 

Giovanni Gramaglia

 

 

 

 

 

 

                    


 

 

Il libro di FILOFOLLESOFIA iniziato da me nel 1998, fu pubblicato dalle edizioni “SENSIBILI ALLE FOGLIE” nel lontano 2003. Sulla destra la copertina dello stesso libro stampato da me artigianalmente, con il mio computer e la mia stampante, nella mia abitazione nell’anno 2008.

 

 

 

Filofollesofia 1

 

 

 

Copia di FILO PICC

 

 

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GIOVANNI GRAMAGLIA

 

 

 

 

 

FILOFOLLESOFIA

-TRA SCIENZA E DELIRIO-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“PROCESSO

ALLE OPINIONI„

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARTECIPAZIONE PINA CECCOLI

 COLLABORAZIONE MICHELE BAIANO


 

 

 

 

 

 


 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE…

AL GIORNO D’OGGI

 

 

 

Oggi 3 marzo 2018, mi ritrovo a stampare il volume 1 della Filofollesofia, già pubblicato dalla “Sensibili alle Foglie” nell’anno 2003, finanziato dall’Asl NA 2, nell’ambito di un delirante, quanto meno deleterio, laboratorio psichiatrico dai dubbi risultati. All’epoca, era il febbraio 1997, andai presso il CSM per chiedere un certificato per la pensione, ed in cuor mio per un aiuto da parte degli operatori. Mi dicevo: “Non ho nessuno con cui parlare, e farlo con uno psicologo potrebbe farmi bene: almeno avrei qualcuno con cui chiacchierare una volta la settimana”. Ma non andò per nulla così: venni “preso” in terapia da uno psichiatra, che come seppe del mio “contatto ufo”, secondo mia dichiarazione, mi tormentò fino all’inverosimile per convincermi a scrivere un libro su detti ufo; cosa che io assolutamente non volli fare. Inciso: lo psichiatra era convinto che questo “contatto” fosse puro delirio! Per alcuni mesi andai da lui in terapia, poi venuta l’estate lo salutai e non lo frequentai più.

L’anno dopo, febbraio 1998, tornai all’Asl e chiedendo di nuovo una terapia e un altro terapista fui assegnato ad una psicologa, che mi tormentò, anch’essa, perché scrivessi di ufologia, di altro, e anche di “filosofia sociale e scientifica”, bontà sua me ne riteneva capace! È ovvio che nel suo delirio psichiatrico era solo un espediente per mettermi a scrivere e farmi cominciare la terapia che, mio malgrado, lei aveva stabilito per me. Resistetti per qualche mese, poi, manipolato dalla sua azione subliminale alla fine mi lasciai convincere, persuaso che la donna veramente credesse in quello che mi aveva spinto a fare, con la sua collaborazione. Inutile dire che passarono solo poche settimane, ed io dovetti tristemente rendermi conto che quella che mi era stata presentata come una collaborazione di studio filosofico, era invece una delirante terapia che presupponeva il mio operare con la dottoressa in questione. Provai a chiedere alla donna, ma questa, sebbene per una volta soltanto, la prima volta che gliene parlai, ammise la terapia, poi la negò strenuamente nel corso dei mesi successivi, cosa per la quale io la allontanai considerandola una bugiarda che mi aveva solo raccontato frottole.

È sconcertante notare come questi operatori ambientali non tengano conto della realtà dei fatti e dei comportamenti usuali che mantengono unito il tessuto sociale della comunità, e forti, ingiustamente della pretesa di terapia, si muovano come se abbiano il diritto di raccontare qualunque falsità, pur di convincere il povero disgraziato di turno. È ovvio che nel momento che dette frottole vengono fuori, cosa che può sempre succedere, il suddetto operatore perde qualunque credibilità e fiducia da parte del suo paziente, mostrandosi alla fine per quello che è, comunemente parlando: un fasullo e un bugiardo inaffidabile. Allontanata la dottoressa, continuai a scrivere collaborando con un sociologo, alquanto sgrammaticato e, per così dire, improvvisato, nel suo modo sgradevole e menzognero di comportarsi nei miei confronti: gli chiesi più volte della terapia, e lui, mi rispose alternativamente che, sì, era una terapia; ma anche, altre volte, che no! non era una terapia! Con lui dopo la pubblicazione del primo Filofollesofia non volli più avere rapporti, per le ragioni che saranno esposte con dovizia di particolari nei libri successivi a questo: Filofollesofia 2, 3, e soprattutto 4, e che ho scritto appositamente per raccontarli.

Il mio pensiero nei riguardi degli operatori dell’Asl era questo, che loro mi avevano messo in terapia “scrittifera”, perché mi ritenevano un idiota da risocializzare, reputandomi quindi incapace di scrivere veramente dell’argomento stabilito; per cui decisi di continuare per raggiungere il risultato finale e dimostrare loro, che ero capace di fare, io, quello che detti operatori invece non erano in grado di realizzare. Così terminai il volumetto malgrado la collaborazione deleteria del sociologo su detto, che con la sua inettitudine, potrei dire sarcasticamente, mi faceva fare un passo indietro, ogni due faticosamente da me fatti in avanti.

Tutto questo lavoro letterario e concettuale, che potrei definire totalmente inutile, mi è costato 14 anni della mia sofferta e dolorosa esistenza (nell’arco di 20 anni), nella quale io invece di cercare di risolvere i miei terribili problemi psicologici e sociali, ho sprecato la mia intelligenza e il mio tempo a scrivere; infettato, oserei dire, da un terribile virus concettuale, incurabile, che a tanto mi ha spinto; instillatomi sconsideratamente da una ancor più sconsiderata dottoressa, vittima a sua volta di un oltremodo ancor più sconsiderato, deleterio e demenziale accademismo ambientalista che presenta come terapie, deliranti impostazioni concettuali che possono alterare, patologicamente, la vita di un individuo, per anni, decenni, o finanche, per sempre; e che tutto sono o possono essere tranne che scienza e medicina.

 

 


 

 

INDICE

 

 

 

 

 

 

La Premessa…………………………………………………………………..

 

Gianfilosofo E Il Dottor Hicckstz……………….….…….…………...  

 

Dagli Al Pens  Inv  Civ…………………………………………............  

.

Processo Alle Opinioni - Parte I…………………….…………………

 

Processo Alle Opinioni - Parte II…………………..………………… 

 

Processo Alle Opinioni - Parte III………………….………………… 

 

Processo Alle Opinioni - Parte IV………………….………..……….

 

Processo Alle Opinioni - Parte V……………………………………..

 

Conclusione………………….……………………………….……………...

 

 

 

pag 11

 

pag 32

 

pag 66

 

pag 81

 

pag 112

 

pag 144

 

pag 182

 

pag 225

 

pag 273

 

 

 

 


Il Presente Testo È Stato Regolarmente Registrato Presso

IL MINISTERO DEI BENI E ATTIVITÀ CULTURALI

-Ufficio Per Il Diritto D’autore-

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Stampato: Giugno 2018

TIPOLITOGRAFIA GRAFIÒ

Via Napoli 157 - 80018 Mugnano di Napoli (Na)

 

Data pubblicazione: Febbraio 2003


 

Il presente testo va ricollegato alla “homepage” del sito: http://www.filofollesofiagramaglia.it

 

 

GIANFILOSOFO E IL DOTTOR HICCKSTZ

Completato maggio 2000

G-File n. 2

 

 

1° paragrafo

"La grande cavalcata" (barzelletta popolare).

Un matto, con molta educazione, chiede udienza al direttore del manicomio, allora, casa famiglia, ASL, o che so altro, ancora non c’erano, per mettere all'attenzione di quest'ultimo una sua idea. Toc-toc, bussa il nostro amico alla porta dell'ufficio del dirigente che risponde: Avanti.

Timoteo, un metro e ottanta circa, capelli corti, un po' arruffati, ancora ben colorati di nero, malgrado la sua età; vestito effettiva-mente fuori moda, forse parecchio; con i suoi occhiali da vista, color tartaruga, imitazione, ovviamente; lentamente e timidamente apre la porta dell'ufficio, quel tanto che basta a permettergli di entrare; e con la sua voce, appena percepibile chiede: È permesso?

Il dottore, dietro i suoi bei baffoni, sorridendo molto amichevol-mente risponde: Prego, si accomodi, mi fa molto piacere che abbia qualcosa di nuovo, e sono convinto di interessante da pre-sentarmi, si sieda e mi dica con calma.

Timoteo, a questo punto ormai già entrato nella stanza, soc-chiude la porta alle sue spalle, lentamente si siede sulla poltroncina di fronte la bella scrivania, di quell'ufficio, comunque, tenuto con un minimo di decorosa eleganza; e a bassa voce, come suo solito, si spiega: Sa, signor direttore, ho molto tempo libero, e tutto il giorno non so cosa fare. Perciò, penso, penso, penso, a tante cose, e sono convinto che impegnandomi in qualcosa di valido e costruttivo come la scrittura, potrei sentirmi realizzato; e di conseguenza meno inutile e superfluo. Un attimo di pausa, e poi Timoteo riprende: Oltre tutto potrei fare qualcosa di utile, magari, scrivendo un bel romanzo: le persone lo leggerebbero, pubblicandolo in seguito, ne trarrebbero gioia, piacere, e io ne sarei contento, ovviamente; veramente, con-tento... molto contento, contento, contento.

Il direttore, un po' impensierito, non sapendo cosa dire, interrom-pendolo quasi, esclama: Va bene, Timoteo, calmati, non avere ti-more, va tutto bene, non hai altro da fare che chiedere, se ti serve qualcosa, e se potrò, te la darò certamente.

Il nostro amico, riprendendosi, rincuorato dalle parole del dottore, sorridendo a malapena: Vede direttore, mi servono solo fogli, tanti fogli di carta, per scrivere, una matita (allora i computers, i p.c. non esistevano). Per cancellare... sì, una bella gomma, per rimediare agli errori, alle approssimazioni, alle follie del mondo; no, forse una gomma sola non basta, non può bastare; stringendo le mani l'una nell'altra, e alzando gli occhi al cielo: Meglio due!

Il direttore, dall’altro lato della scrivania, messo un po' in allarme dall'atteggiamento del ricoverato, lentamente, si alza, poggia delica-tamente la mano sulla spalla sinistra di Timoteo, e cercando di mo-strare simpatia e assenso, leggermente sorridendo dice: Ma certo, non temere, una matita, tanti fogli e due gomme per cancellare.

Meglio tre, aggiunge Timoteo, meglio tre! ripete il dotto-re; e si avvicina allo scaffale, dal quale prende appunto il materiale richiesto e lo porge al matto, con un sorriso e un augurio. Timoteo ringrazia, sorridendo soddisfatto, e con il materiale suddetto, esce dall'ufficio dirigendosi verso la sua camera, lasciando il direttore un po' perplesso, che rimugina tra sé e sé: Speriamo bene…

Il nostro Timoteo, scrive, scrive, scrive, effettivamente; e dopo un mese ritorna dal direttore, stessa situazione, stessa richiesta: fogli matite e gomme per cancellare; Timoteo, prende con gioia gli oggetti che il dottore con altrettanta gioia gli porge e salutando, con un pic-colo inchino, quasi a voler ringraziare con tutta la sua persona, oltre che con la voce, come già aveva fatto, va via.

Dopo un altro mese, altra richiesta identica, soddisfatta; e così per altri due, tre mesi la situazione si ripete, lasciando ogni volta sempre più perplesso, ma favorevolmente interessato il direttore, che ormai, con profonda curiosità si interroga sul possibile contenuto del libro, che Timoteo, almeno all'apparenza, con grande impegno, sta alacremente scrivendo.

Finalmente, in una bella mattinata di sole, risplendente e lumino-sissima, quasi a salutare quello che può essere forse un vero e pro-prio evento: la presentazione al mondo di un nuovo capolavoro lette-rario, Timoteo si mostra, felice, pieno d'entusiasmo al nostro dirigen-te, aprendo addirittura la porta senza nemmeno bussare, dimentico quasi della sua solita timidezza; ma una volta dentro la stanza, ren-dendosi conto della sua insolita irruenza, si ferma, ed eccitato si ri-volge al direttore che lo guarda con non poca meraviglia: Direttore, direttore, mi scusi se sono entrato così senza bussare. Però, sa ho finito il libro, e sono corso qui per portarglielo a vedere: è solo grazie a lei che ho potuto scriverlo, e a tutti i fogli che mi ha dato; glielo posso mostrare?

Il direttore sentendo la buona notizia, dimentica istantaneamente la sua meraviglia e perplessità e preso dalla gioia e dalla curiosità, esclama: Ma certo, Timoteo, sono mesi, che aspetto questo mo-mento, anzi ti dirò che non si parla d’altro al centro, che del tuo libro; e ora che l'hai terminato, e me lo porti per darci un'occhiata, ci man-cherebbe anche che non avessi tempo per visionarlo.

Timoteo rincuorato, gioioso, per queste parole si avvicina alla scrivania, porge il libro al direttore, e felice, emozionato e sorridente, gli dice: Vuole dargli un'occhiata, vuole leggerne qualche pagina? così poi mi fa sapere; sperando che lo trovi interessante.

Il dottore, prendendo il manoscritto con le due mani, gli risponde:

Perché non resti con me, per leggerne qualche pagina assie-me, penso che farebbe piacere a tutti e due.

Timoteo lo interrompe e, assumendo un tono quasi enfatico, dice:

Volentieri, ma sa, sono così stanco: ho lavorato tutta la notte per concludere l'ultimo capitolo e finire il libro, e vorrei andare a ripo-sare. Lo legga lei, poi mi fa sapere; e, speriamo bene!

E il direttore a lui: Facciamo così, d’accordo, va bene! Vai tran-quillo, che io resto qui a dargli un'occhiata; d'altra parte, fortuna-tamente in questo momento non sono impegnato. Ci vediamo dopo, allora, buon riposo.

Timoteo, ringrazia, sorridendo, saluta e va via, chiudendo alle sue spalle delicatamente, come suo solito, la porta. Il dottore, rima-sto solo, si siede, quasi famelico, nella sua curiosità, accresciutagli in mesi di attesa; e finalmente legge: “Di Timoteo de Rossi: La gran-de cavalcata". Volta la pagina della copertina e trova bianca la suc-cessiva; volta un'altra pagina e nuovamente ritrova il titolo ben scrit-to a mano libera, ma in stampatello. Volta pagina di nuovo e final-mente legge: «Luigi, giovane uomo, alto forte e prestante, avvicina-tosi al suo purosangue, splendidamente bianco, con un balzo gli monta in sella. Un colpo di speroni, un grido, e via nel vento di pri-mavera, accompagnato dallo scalpitio dell'animale: pt-po, pt-po, pt-po...».

Tristemente meravigliato, il dirigente interrompe la lettura, solo per rendersi conto che tutta la pagina fino all'ultima riga è piena di questa parola. Incredulo, deluso e innervosito, volta velocemente il foglio e legge: “Pt-po, pt-po, pt-po”... all'infinito! Freneticamente, allo-ra, aprendo a caso in successione, legge a pag. 5: “Pt-po, pt-po, pt-po”... a pag. 10: “Pt-po, pt-po, pt-po”... a pag. 100: “Pt-po, pt-po, pt-po”... a pag. 200, lo stesso; a pag. 300 identico! Allora, veramente deluso, prova a guardare l'ultima pagina per vedere se almeno lì, qualcosa da leggere ci possa essere. Ormai tristemente consapevo-le del fatto che tutto il libro non è altro che la ripetizione ossessiva, folle, dell'unica parola, di questa voce onomatopeica, sopra riportata e ripetuta: “Pt-po, pt-po, pt-po”... All'ultima pagina, trova effettiva-mente però una razionale conclusione: «Pt-po, pt-po, pt-po! nel vento di primavera, lo splendido destriero bianco galoppa furiosa-mente. Ma ad un tratto: uno strattone alle briglie, l'impennata grotte-sca del cavallo che si ferma quasi cadendo per lo sforzo; il balzo felino di Luigi che scende di sella e si allontana accompagnato dal nitrito dell'animale: Hiiiiiiiiii... Qui termina la grande cavalcata!» e un po' più sotto: “ FINE ”.

 

 

2° paragrafo

 

Partendo dalla storiella precedente, sento il bisogno di soffermar-mi su una mia personale considerazione: siamo fortunati che Timo-teo fosse matto, e non altro, e che quindi abbia costruito alla fine so-lo un'opera letteraria; ripetitiva, monotona, noiosissima, ma sempre e solo letteraria!

Per quale motivo questa mia osservazione? So, effettivamente, ammetto davanti a me stesso e agli altri: sono "matto" (parola non inserita in una precisa terminologia medico-psichiatrica, e che gros-solanamente vuol dire: persona bizzarra, buffa, "fuori di testa”; come vedete, lo so anch'io; e Ceccolina conferma!). Però, sono anche in-telligente, come già ho detto, e probabilmente ripeterò; d’altra parte, sono Dio (ah, che bel delirio di onnipotenza: mal comune mezzo gaudio). Intelligentissimo, troppo intelligente, e si sa, o almeno io ne sono convinto, quando un matto é troppo intelligente, automati-camente, prima o poi diventa filosofo: e via, nel vento di primavera con la sua grande cavalcata; non solo letteraria, ovviamente pur-troppo, ma anche e soprattutto concettuale, e allora, cominciano i guai più o meno seri, a seconda delle idee presentate. Anch'io, co-me matto troppo intelligente, devo avere subito anni fa questa me-tamorfosi, così eclatante e meravigliosa: e come da una crisalide viene fuori la farfalla, dal matto troppo intelligente è nato il filosofo. Basti pensare a quanti mistici, hanno scritto di teologia, ognuno par-lando del proprio "Unico e vero Dio"; scatenando dappertutto contra-sti terribili, guerre di religione, persecuzioni, stragi, stermini, motivati solo dalla caccia all'eretico; eretico generale, visto nel nemico non credente. Alcuni, i più famosi, nati, vissuti e operanti migliaia di anni fa, sono ancora in voga, con le loro mistiche rappresentazioni, e an-cora trovano seguaci pronti ad uccidere e a farsi uccidere nel nome luminosissimo di Dio, senza mai né averlo visto, né averlo potuto ascoltare. I filosofi politici: Marx ad esempio, che per aver scritto il "Capitale", ha dato origine alle correnti politiche del comunismo; che nelle sue mille rappresentazioni, pare abbiano provocato, da come dicono in tivù, se non ho capito male, circa cento milioni di morti, in tutte le guerre di "Liberazione del popolo" dall'oppressione imperiali-sta e capitalista. Portando alla fine però, solo ad altre dittature e non del proletariato, come auspicava Marx stesso; dittature più o meno frustranti e schiaccianti, costruite sullo sterminio e sul sangue; e che poi hanno a tutti i costi cercato di reggersi sulla repressione e sulla violenza. Non parlando poi, o meglio ancora, volendone parlare in-vece, del simpatico Adolf, mistico e politico contemporaneamente. Tutti sanno chi era: il capo della Germania nazista; ma pare che nessuno tenga presente, o voglia ammettere che era anche un filosofo, forse non il più intelligente di tutti, ma certamente il più alienato! La sua era una vera e propria teoria filosofica, aberrante, feroce, distruttiva, ma certamente non per lui e per chi lo seguiva, e comunque: teoria filosofica. Ai filosofi si tende a dare l'aspetto bona-rio, ragionevole di chi ponderando, ponderando cerca di arrivare alla radice delle cose, analizzandole e studiandole in tutti i modi; ma non sono solo quelli i filosofi, sarebbe il caso di tenerlo presente; forse quelli sono solo i più innocui... forse. Tornando al simpatico Adolf, definito schizofrenico, a posteriori, che belle guerre, che riuscì ad organizzare con quei 40, 50 milioni di tedeschi, schizofrenici come lui a questo punto, coinvolti dalle sue idee della razza eletta e del-l'impero dei mille anni. Era un filosofo? si! tanto è vero, che le giova-ni generazioni ancora lo studiano, per le strade, magari soprattutto, è vero; ma comunque allo stesso modo di come altri giovani, in altri siti organizzati all'uopo, studiano suoi colleghi, meno aggressivi for-se, ma non certo meno deleteri.

C'è da avere paura ad essere, anche solo a definirsi, filosofi: oggi costruisci e presenti una teoria ai pazzi umani, e domani così, come se niente fosse: 10 milioni di morti, 20, 30, e più; e i geni, che opera-no per il bene dell'umanità, che poi è stato sempre il sogno lavora-tivo della mia vita, da quando, evidentemente, bambino, ragazzo, uomo, vedevo, seguivo e ammiravo nei film di fantascienza, che ho sempre adorato, lo scienziato (il genio), intelligente, coraggioso, al-truista, eroico, che grazie alla sua tecnologia sconfiggeva l'alieno; salvando il mondo dagli extraterrestri cattivi. Cosa dire di loro!? oggi uno scienziato scopre l'atomo, per il bene dell'umanità; domani, un altro costruisce e perfeziona il razzo, poi il razzo vettore, e lo adatta in seguito ai voli spaziali. Un altro ancora, elaborando una mate-matica superiore, riesce a farlo muovere su orbite sempre più complicate e precise, sempre per il bene dell'umanità. Intanto che altri hanno già scoperto le onde hertziane, la tecnologia dell'elettro-nica e la scissione dell’atomo. E alla fine tutti insieme hanno collabo-rato e partecipato alla costruzione del razzo intercontinentale orbi-tante terra-terra, a testata termonucleare multipla... e tutto per il be-ne dell'Umanità! Anche fare il genio “compreso”, a quanto sembra, può diventare altamente deleterio; e allora? allora, all'inizio ero pie-no di perplessità: scrivere o non scrivere? e lo sono ancora! Ma for-se, pensandoci bene, aprirmi al mondo sarebbe la cosa migliore; e presentarmi nella mia precisa, ampia, complessissima vivacità po-trebbe vedere realizzato finalmente il sogno della razza umana. In-fatti, grazie a me, che davvero potrei definirmi, al contrario di Hitler, il filosofo meno matto e più intelligente della storia della filosofia… non ci credete? Lasciatemi scrivere con calma quelle 5, 6 mila pagine e vi garantisco che ve ne convincerete! pagine nelle quali potrei pre-sentare ben elaborate tutte le mie teorie e conoscenze psicologiche, sociopolitiche, filosofiche, astronomiche, fisiche e matematiche; ben sostenuto dalle mie conoscenze ufologiche e personali, non dimenti-cando, i miei studi televisivi, e il mio titolo didattico alieno, equiva-lente più o meno ad una laurea in storia e filosofia; e come va a finire poi? semplice, scoppia la terza guerra mondiale, ma come minimo! ben guarnita e farcita da qualche piccola bomba all'an-timateria, costruita come sempre dai soliti geni che lavorano per il bene dell'umanità. Bomba, venuta fuori da qualche mia allucinante favola ufologica: che dopo decenni di studi e di calcoli, partendo dalle espressioni matematiche "Gramagliane", gli scienziati sono riu-sciti con tanta capacità ad approntare. Filosofi e politici hanno fatto il resto, per smuovere le masse e portarle all'Apocalisse, mentre spe-culatori e mercanti d'armi li sorreggevano; e alla fine, grazie al lavoro di tutti costoro: saggi, filosofi e geni, politici e mercanti al... servizio dell'umanità; qualcuno soprattutto al servizio di se stesso, l’umanità avrà risolto ogni suo problema; e il tutto, partendo da Gra-maglia, che spiega le sue ben riposte conoscenze. Peccato però che nessun umano, nel caso ipotizzato, potrà rimanere vivo per ringraziarmi, quando il pianeta, e forse l'intero sistema solare, insieme all'uomo, non esisteranno più. Comunque, e in ogni caso, mi sentirò soddisfatto, ammesso che senta ancora qualcosa, per aver lavorato come filosofo e come genio al servizio e per il bene dell'umanità, che però allora non ci sarà più, avendo, per fortuna e grazie a me, smesso definitivamente di soffrire.

E adesso, mi raccomando, non dite che non sia delirio questo, e che non sia io, matto e megalomane: non vorrei che qualcuno pen-sasse che non sono filosofo e genio! ma nel caso non c'è problema, perché tanto questo è solo l'inizio.

Avendo considerato e bene spero, riprendiamo dalla storiella di Timoteo: quella della richiesta di collaborazione del matto al direttore del "manicomio", l'ho scelta appositamente, perché analoga situa-zione si è verificata realmente, quando, trovatomi a colloquio con il dottor Perrino, su mia richiesta per discutere della copertina di un libro, scritto dai medici del DSM ASL NA2 per il quale ho collaborato, inserendovi, come mi era stato chiesto (terapia partecipativa?) la foto di un mio dipinto, mi sono permesso di chiedere la stessa col-laborazione. Con una differenza però, e ancora ne sorrido, tra me e me, dall'imbarazzo: invece di chiedere carta, matite e gomme (per cancellare i mali del mondo), mi sono permesso di richiedere la col-laborazione di una psicologa e un sociologo, per due appuntamenti complessivi settimanali, e l'utilizzo oltretutto, di un computer, per ribattere in bella copia il tutto, da me scritto e da loro, in collabo-razione riveduto. Confesso che temevo un po' la sua reazione; e cioè, che oltre ad un preciso no! chiamasse qualche infermiere, con tranquillanti vari; e invece, sorridendo, ha molto garbatamente ac-consentito. Prometto, assicuro e garantisco di non riempire assolu-tamente 800 facciate di: “Pt-pò, pt-pò, pt-pò”, in rispetto all'intel-ligenza e alla collaborazione che mi è stata accordata. Sperando comunque che, malgrado l'apparenza, una grande varietà di parole, il risultato concettuale non sia lo stesso: che qualche musa filosofi-co medicale ce la mandi buona! Comunque in ogni caso, qualunque cosa possa mai scrivere, socio-politico-mistico-ufologica, aberrante ed alienante al massimo, mi raccomando, voi lettori umani, mante-netevi calmi, non suicidatevi, non aggredite i vicini, non rivoltatevi gli uni contro gli altri; non scatenate rivoluzioni, guerre civili e non; stra-gi, stermini, genocidi vari a sfondo politico, religioso, sociale ecc.. Ri-cordatevi che è solo un uomo che parla, al massimo un povero, piccolo alieno; e non è il caso di uccidersi o uccidere, rischiando di essere uccisi; solo per un'idea, magari puramente mistica e catego-ricamente indimostrabile nella sua reale veridicità, come per migliaia di anni, e oltre, cari umani, avete fatto, e continuate a fare. Tornando a Perrino, credo che fosse così ben disposto, poiché Ceccoli, la psi-cologa, già gli aveva presentato la situazione, dato che ne era da tempo a conoscenza, mettendoci la "buona parola". Se così ha fatto, ben fatto (forse)!

 

 

3° paragrafo

 

Ma, come sono arrivato al DSM ASL Napoli 2? spero che interes-si, perché tanto, comunque adesso lo racconto. Il mio nome come da copertina, più il cognome, è Giovanni Gramaglia. Pensionato per grave problematica psichica (invalidità civile e del lavoro): mi è stata diagnosticata approssimativamente, un po' da tutti, una bella, ge-nerica, "psicosi dissociativa". Ma non lasciatevi ingannare dai miei scritti lucidi e coerenti, almeno credo, e dal mio atteggiamento tran-quillo e pacato, forse; nel caso mi doveste incontrare e conoscere fate attenzione, sono molto più "matto" di quel che sembra. Il fatto è per fortuna, che sono capace di un grande autocontrollo e di una an-cora più grande abilità recitativa: perciò riesco così bene a nascon-dere i miei sintomi, e a sembrare quasi normale. Però, intanto, dove vado vado, aprendomi, e spiegandomi per bene, mi danno subito la pensione: mi basta smettere di recitare e diminuire un poco il mio autocontrollo. Alla visita psichiatrica però, per mostrare la mia reale problematica mentale, per l'invalidità civile, mi sono lasciato andare un po' troppo, tanto che ho cominciato a tremare e a gesticolare convulsamente. Il mio nervosismo, era tale che, malgrado il dottore cercasse di calmarmi in tutti i modi, ho impiegato alcuni minuti per riuscirci. Dopo ero nervosissimo, al punto che, terminata la visita, non riuscivo più nemmeno a ritrovare l'uscita: in un corridoio con una semplice biforcazione a elle. E solo per riorganizzarmi mental-mente, e ritrovare il mio solito, barcollante, pietoso equilibrio menta-le, mi ci è voluta addirittura una settimana; e tutto questo semplice-mente per dire che stavo male. Comunque almeno, mi è stato cor-risposto anche l'accompagnamento, oltre alla pensione: e il tutto concesso, prima che io arrivassi al punto di perdere quasi comple-tamente il controllo.

Questa concessione dell'indennità mi è molto servita, per "so-pravvivere", come spiegherò in seguito. E così, dopo 17 anni di atte-sa, tanto, avevano impiegato per convocarmi finalmente alla visita medica, avevo anch'io la mia bella pensione. Quando mi arrivò il primo mandato di pagamento, notai però, che di tutti quegli anni, non mi erano stati corrisposti gli arretrati, ad eccezione dell'unico che andava dalla visita medica al primo pagamento. Telefonai per protestare, garbatamente ed educatamente, facendo presente la cosa; mi dissero che dovevo recarmi in sede, con documentazioni specifiche per fare reclamo. Un po' deluso, ma neanche tanto, ri-sposi che non me la sentivo: Sto male! risposi all’impiegato, non sono in condizioni di affrontare battaglie legali per avere altri soldi! e lui di rimando, nessuna battaglia legale, venite qua e presentate le carte. E io, concludendo: Lasciate stare, va bene comunque anche così! pensando tra me e me, almeno sopravvivo! anche perché allora non avevo ancora avuto la mia pensione Inps di ex commerciante.

Fino a trentacinque anni, avevo sempre cercato, per quanto mi era stato possibile, di organizzarmi qualcosa per inserirmi nella so-cietà lavorativa, con patetici risultati però; e così, a quell'età, mi con-vinsi che effettivamente era inutile insistere. O ero io incapace, che sembrava la cosa più ovvia, malgrado non mi facesse piacere ammetterlo, o era la sfortuna, o chissà che altro... magari l'intervento nefasto del computer VDS. Ma "lavorare" proprio non era una cosa che, malgrado i miei sforzi, potevo portare avanti normalmente. Mi arresi quindi all’idea, non avendo altro a cui aggrapparmi e non es-sendomi ancora stato riconosciuto, allora, il diritto al pensionamento, mi dissi che certamente qualcosa sarebbe successo, prima o poi, che mi avrebbe comunque garantito la sopravvivenza economica, una volta che i miei familiari, che mi mantenevano, due vecchiette: madre e zia, non ci fossero state più; e infatti, è venuta la pensione, all'incirca a 37 anni (ora ne ho 45). Per la pensione Inps di commer-ciante, poi avevo versato 5 anni di contributi come venditore ambu-lante, grazie molto di più alla mia famiglia, che al mio lavoro. Lavo-rai, infatti, soltanto per i primi due anni, guadagnando nemmeno, tolte le spese, i soldi dei contributi suddetti, ma per il resto pagarono tutto loro: madre e zia. D'altra parte, nelle documentazioni Inps mi pare che proprio si parlasse di un minimo di incapacità lavorativa di tre anni.

Le visite mediche andarono in maniera più tranquilla, per fortuna questa volta, se escludiamo i miei buffissimi atteggiamenti alla "pre-visita", accompagnati, da parte mia, da tantissimo imbarazzo!

Così, alla fine, ebbi la mia pensione ex commerciante, ci fu solo un intoppo burocratico, di poco conto, ma curioso: tra un ufficio e l'altro, dello stesso palazzo Inps, rifiutavano di passarsi la fotocopia di uno dei tanti bollettini da me pagati, perché gli impiegati non era-no disponibili; e a me, che mi offrivo di farlo personalmente, per pro-cedura, rifiutavano la collaborazione. Effettivamente mancava una copia di un bollettino, per mia responsabilità, bollettino d'altra parte però presente in uno dei due uffici. L'ufficio A aveva copia del mio pagamento pervenuto tramite posta e da me regolarmente effet-tuato. L'ufficio B, richiedeva copia identica, che purtroppo non era in mio possesso, in quel momento, perché temporaneamente smarrita, o almeno una fotocopia. L'impiegato di A, che aveva copia del bol-lettino, era impegnato e non poteva andare a B; quello di B, altret-tanto, e neanche lui poteva muoversi per andare da A, a prendere la fotocopia del bollettino, o il bollettino stesso, per fotocopiarlo. L'im-piegato di B, allora mi disse di andare personalmente a prendere il suddetto famigerato effetto di pagamento, o almeno la fotocopia nell'ufficio A; ma l'impiegato di A, disse che a privati, non era am-messo l'accesso alla documentazione, e che l'impiegato di B, se-condo procedura, doveva andare ad A. Ma la signora di B diceva che era l'impiegato di A che doveva andare a B; e la cosa non si ri-solveva in nessun modo. Insomma, alla fine, avvilito e deluso, andai via; però fortunatamente, stesso in giornata, la signora dell'ufficio B, mi telefonò per rassicurarmi del fatto che il passaggio di documen-tazione era stato effettuato, e che al più presto avrei avuto il mio bel-l'assegno di invalidità integrato al minimo, cosa che si verificò effet-tivamente. Oltretutto, in seguito ritrovai poi il su indicato bollettino maledetto, che non serviva ormai più; e che ho ancora conservato con cura.

Quello che purtroppo, mi disturbava parecchio, e che comunque non potevo non accettare, se volevo continuare ad avere la mia pen-sione Inps-commercio, era quella procedura terribile della visita me-dica triennale; che per fortuna però si effettua solo due volte prima di rendere definitivo l'assegno, almeno per me così è stato. Faccio di tutto per nascondere a me stesso i miei problemi, le mie angosce terribili, le mie considerazioni e timori da incubo, e sforzandomi note-volmente riesco a mantenermi relativamente calmo. Ma quando de-vo esporre, in colloquio psichiatrico, le mie cose, allora devo tirarle fuori, presentarle a me stesso prima che ad altri, risultato: per setti-mane, prima e dopo la visita, la mia sensazione più evidente e oppri-mente è quella di vivere un vero e proprio incubo, dal quale solo la morte potrebbe, forse e neanche sarebbe sicuro, tirarmi fuori. È inu-tile verificare più volte il mio stato mentale: sono così con tutta la mia problematica fin da quando ero ragazzino: cambiano i sintomi, ma l'alterazione di fondo è sempre la stessa. Chi lo sa, forse speravano nel miracolo!? Comunque bisogna convenire nei confronti dell'Inps che la sua fama di essere parecchio restia a concedere pensioni di invalidità probabilmente non è meritata. Magari, quelli che a volte lamentano televisivamente l'avvenuto rifiuto, effettivamente devono mancare del requisito sufficiente di invalidità: dato che io, evidente-mente avendolo, ho ottenuto il totale assenso da parte dell'istituto e quindi l'assegno, e senza nessuna conoscenza, né a basso né tanto meno ad alto livello e nessuna agevolazione. Non ero iscritto a parti-ti, non lo sono mai stato; non facevo parte, né lo faccio tuttora, di associazioni di invalidi e né ho chiesto l'aiuto di patronati e simili, e né infine ho usufruito di appoggio legale di un qualsiasi tipo. Come d'altro canto, ho agito presentando la mia richiesta di pensione per l'invalidità civile: sono semplicemente, mogio e timido, andato in giro per gli uffici, io, i miei fogli e documenti vari, chiedendo informazioni e spiegazioni ai vari addetti. Spinto soprattutto in questo secondo caso dalle ossessionanti insistenze di quella gran... vecchiarella di mia madre, che non mi lasciava mai in pace: lei l’assegno o la pen-sione Inps ex commerciante.

Sono pensionato, dicevo pagine fa, e come tale, ogni tanto ricevo dal Ministero del Tesoro, tramite Prefettura di Napoli, richiesta di documentazione relativa alla pensione di invalido civile (all’epoca, nel 2000, la pensione inv civ era gestita dal suddetto ministero), mol-to raramente però; da parte dell'Inps, per la pensione ex commercio, un po' più spesso. E per l'appunto, verso il mese di febbraio del-l'anno 1997, l'anno scorso, dato che ora siamo nell'ottobre '98, mi è pervenuta appunto una di queste comunicazioni: mi si chiedeva di specificare se io, invalido civile, con l'indennità di accompagna-mento, ero ricoverato o meno in istituto. Fin qua la cosa era molto, molto semplice, la mia risposta ancora più semplice era no, ovvia-mente: non ero e non sono tuttora ricoverato in istituto. Ma, c'era un problema: la seconda parte del documento, la metà del foglio in bas-so, sibillina e anche apparentemente astrusa, almeno a mio avviso, lasciava il dubbio se bisognava allegare o meno un certificato; che tipo di certificato, non si capiva. Preso a questo punto dal solito "pa-nico da alienofobia", impaurito e intimorito, decisi di chiedere infor-mazioni. Nel rispetto della legge del computer VDS, io dovevo asso-lutamente e categoricamente assolvere qualunque adempimento ve-nisse a presentarsi, inerente le pensioni. Così feci: chiamai la Pre-fettura, risposero: «Sì! se lei è malato di mente e pensionato, anche con validità di firma, deve portare il certificato medico». Il dubbio era proprio questo: il certificato lo dovevano presentare i tutori legali de-gli inconsapevoli (senza validità di firma) per attestare l'incapacità ad autogestirsi degli stessi, o tutti i malati di mente pensionati e con l'in-dennità di accompagnamento? L'impiegato però, neppure mi chiarì di quale tipo di certificato si faceva richiesta, anche perché io, im-paurito e imbarazzato, nemmeno glielo chiesi specificatamente. Stessa cosa mi rispose un'associazione di invalidi, alla quale tele-fono a volte, pur non appartenendovi come iscritto: Ci vuole il certifi-cato”. Anche questa volta non chiesi in merito alla natura del certifi-cato, anche perché sembrava evidente: "attestazione d'insanità”. Andai così, molto impaurito, il mio timore degli alieni era pressante, a quella che era allora l'ASL di Napoli, sezione Vomero; ma mi fece-ro parecchie obiezioni: perché, abitando prima a Napoli, la suddetta ASL, essendo competente per territorio, mi aveva sempre ben con-siderato, ma essendomi io trasferito a quel tempo fuori territorio, ne venivo praticamente respinto. Protestavo dicendo che per legge, da come mi avevano detto a Marano di Napoli, dove avevo la nuova residenza, comunque dovevano prendermi in considerazione. Ma lo-ro insistevano, facendo riferimento al fatto, della troppa affluenza di pazienti residenti nel loro territorio che già dovevano curare. Queste proteste però erano solo degli infermieri, perché fortunatamente i dottori invece, forse perché ero loro simpatico, o perché capivano che ero molto preoccupato, mi presero seriamente in considerazio-ne, e mi fissarono un appuntamento per quindici giorni dopo, per visita medica scopo certificato. E nella mia veste di pensionato, a questo punto, ebbi finalmente il mio bel certificato, per "uso consen-tito dalla legge", presso la sede del Servizio di Salute Mentale del Vomero, debitamente poi consegnato. Però mi fecero presente al centro, che avendo cambiato residenza, avrei dovuto rivolgermi in futuro alla sede spettante per territorio: l'USL di Giugliano. Dopo va-rie ricerche di questa sede senza positivo esito, interpellai al riguar-do il mio medico di famiglia il quale mi parlò di una struttura anche abbastanza lontana da casa mia. Però fortunatamente, venni a sa-pere che non era così: anzi, la sede, che al contrario era molto vici-na, poteva essere raggiunta addirittura a piedi senza sforzo, o con pochi minuti di pullman; così, mi ci recai.

 

 

4° paragrafo

 

«Qui comincia la sventura del signor Disavventura, che coi medi-ci furboni ci ha rimesso bei milioni!» di lire, ovviamente. Il giorno nel quale arrivai al Servizio di salute mentale (salute?) dell’ASL NA2, era o doveva essere all'incirca il 10,15 febbraio 1997, chiesi all'infer-miere di avere un colloquio con un operatore e fui fatto accomodare in una piccola stanza. Risposi alle solite domande di rito: nome, co-gnome, indirizzo, titolo di studio, stato civile... numero masturbazioni quotidiane, defecazioni settimanali, ecc., ecc.. Insomma, un vero e proprio piccolo interrogatorio. Impressionabile come sono, già pen-savo di fuggire il più lontano possibile. Comunque, finalmente la co-sa si concluse e io fui introdotto, dopo qualche minuto di attesa, in un'altra stanza e qui ebbe quindi luogo il fatidico incontro tra il sot-toscritto e il suddetto Servizio di Salute Mentale, rappresentato, nella fattispecie specifica dalla persona fisica dell'emblematico, ematico e fantomatico dottor Adolf Sigmund Hicckstz (pronuncia semplicemen-te “Ics”… che spreco di consonanti… ah! Queste lingue straniere!). Non ci credete che al Servizio di Salute Mentale dell’ASL NA2 esiste il dottor Hicckstz? Andate, andate al Servizio e vedrete che dietro un quadro, sotto le scrivanie, o magari in qualche registro, in qualche tabulato riservato certamente troverete questo nome. Andate, anda-te!... Altri incontri pure hanno fatto epoca e storia: Ciano e Mussolini, Garibaldi e Vittorio Emanuele, Mosè e Dio... Topolino e Pippo. Ma non avevano nulla a che vedere come importanza ed esaltante drammaticità, ovviamente, con quello in questione. Il primo colloquio con questo dottore fu buffo e stravagante: voleva per forza parlare sempre lui; quando invece, volevo essere io a parlare; e poi rideva, rideva, rideva, ma per quale ragione lo faceva? considerando che allora ero nervosissimo, a causa delle spaventose guerre stellari che mi roteavano nel cervello, e che quasi mi portavano all'esaspera-zione; rappresentando adesso come una semplice favola, il mio delirio di allora. Comunque prendemmo appuntamento per la set-timana successiva per iniziare una terapia, non meglio specificata. Quel pomeriggio, però del nostro primo appuntamento non andai, in quanto mi recai a consegnare il certificato indicato. Telefonai il gior-no dopo a Hicckstz, il quale mi diede un altro appuntamento a di-stanza però di 15 giorni e non di 7, come la prima volta; secondo me per una forma di ripicca nei miei confronti dato che non mi ero pre-sentato al precedente appuntamento, senza neanche avvertire. Ma pensavo io: «In fondo che importanza può avere per lui, sono solo uno dei tanti pazienti!» ma il giorno dopo questa telefonata, mi "fis-sai" su un punto; e così andai all'ASL per parlare con Hicckstz allo scopo di chiedere un tipo di terapia specifico: la terapia di analisi. Verso le 12 e 30 arrivai al Servizio e chiesi di poter parlare con Hicckstz, all'infermiere fuori al corridoio, il quale chiese, a sua volta, al dottore e poi mi disse di attendere. Dopo un po', poco prima delle pulizie pomeridiane, Hicckstz mi invitò ad entrare, mi fece sedere, poi si sedette a sua volta dall'altra parte della scrivania, e mi parve ovvio presentare la mia richiesta, per cui, esclamai: «Vorrei dire una cosa!» a questo punto si verificò un fatto inaspettato e imprevedibile: il divertito e ilare, l’allegro dottor Hicckstz non era più lui, si era tra-sformato, era diventato perentorio e irritato, o almeno così a me sembrava: infatti con tono spazientito e a voce alta, se non ricordo male, perfino agitando il dito nell'aria, mi interruppe, impedendomi di dire le mie cose e sentenziando: «No, lei non parla! lei parla quando lo dico io! lei parla tra 15 giorni, in terapia!» meravigliatissimo insi-stevo, «vorrei dire una cosa...» e lui allo stesso modo, ripeteva, «no! lei non parla! parla quando lo dico io!» ed io pensavo, «è impazzito il dottore!» e ancora, «ecco che abbiamo ora anche l’ipnotizzatore tivù dei pazzi!». Mortificato e arrabbiato io continuavo a ripetere: «Ma io devo dire una cosa...» e lui, «no! lei non parla!» fino a quando non ho perso la pazienza e, approfittando del suo ennesimo, «lei parla fra 15 giorni, quando viene in terapia!» specificai, «ma è proprio questo il punto, non voglio più venire in terapia!»

Hicckstz miracolosamente si calmò, come per magia, chiedendo-mi coma mai. Riacquistato il diritto alla parola, chiarii che non volevo più la terapia verbale stabilita all'inizio, perché propendevo per un tipo particolare di trattamento, che certamente non poteva essere quello: una terapia analitica. In realtà, non mi preoccupavo neppure della terapia, volevo, devo confessarlo, solo cambiare la specializza-zione dell'operatore di salute mentale. Molto semplicemente perché in quel periodo mi era venuta la paura dello psichiatra, e sapendo che Hicckstz lo era, volevo secondo me sostituirlo con uno psico-logo: in fondo Hicckstz, lo avevo incontrato una sola volta in tutto. Simili atteggiamenti ossessivi mi prendono spesso per periodi di tempo di diversa lunghezza e con varia intensità e sono rivolti a soggetti differenti. Ma, tornando al nostro dottore, cosa poteva aver-lo trasformato così tanto: dall’allegro, ridanciano Hicckstz al peren-torio Yppsilon? forse aveva scoperto i tradimenti di una ipotetica, possibile amante; o gli avevano rubato l'auto e quindi era arrabbia-tissimo per questo e si era sfogato con me? era irritato nei miei con-fronti perché avevo mancato all'appuntamento senza neppure av-vertire? oppure aveva trangugiato una diabolica pozione mutante? Chi lo sa! comunque, con quei suoi modi sgarbatissimi, aveva perso l'ipotesi futura di un possibile coinvolgimento amiciziale da parte mia: io non dimentico facilmente, soprattutto certi atteggiamenti ag-gressivi nei miei confronti. Soffermiamoci sul nostro dottore, evitan-do un approfondimento analitico-interpretativo, nonché socio-politi-co-culturale, economico e commerciale, almeno in questa sede. Un giorno, se ne avrò la voglia e la possibilità, forse scriverò un intero G-file, dedicato a questo psichiatra (e magari potrebbe essere pro-prio questo), dal titolo grandemente significativo: "Tutto quello che non vi è mai importato di sapere del dottor Hicckstz, e che non avete mai nemmeno pensato di chiedere"… forse! limitandomi esclusiva-mente a qualche breve annotazione di psichiatria, voglio fare questa osservazione: nel colloquio definito "primo ascolto", Hicckstz rideva, perché lo faceva? forse voleva "socializzare" o darmi la possibilità di sentirmi a mio agio? ma io questa cosa l’avevo trovata molto irritan-te, considerato il forte stato di tensione nel quale mi trovavo. E poi, perché prendersi nei miei confronti tutta quella confidenza: rideva, scherzava; mi aveva forse scambiato per un suo amico col quale dialogava in un bar, davanti un buon bicchiere di birra? è vero che si rivolgeva a me dandomi del lei, ma era un “lei” del tutto formale e apparente. Nel secondo incontro, il dottor Hicckstz, trasformatosi nell’abominevole signor Yppsilon, invece era diventato brusco e perentorio, forse perché temeva chissà quale comportamento pro-blematico da parte mia, voleva con l'arroganza "contenere il pazzo"? evidentemente! Era sconfinato quasi nell’intimidazione, e il tutto nell'ottica scontata, dell'operatore usuale per il quale il matto è matto e come tale va trattato: cioè, va “trattato” come tale fin dal primo momento che mette piede nell'ASL e chiede attenzione! come a dire, che la vecchia, cara, buona educazione, quell'insieme di rego-le, che disciplinano i comportamenti e gli atteggiamenti tra persone estranee che non sono in intimità, o che addirittura si incontrano per la prima volta, pare non sia proprio considerata nei trattati di psichia-tria: come ho detto e ripeto, il matto è matto e come tale va trattato fin dal primo momento. Quindi, a questo punto mi pare giusto co-struire questa basilare equazione, x + y = ep, dove ep sta per: "erro-neità psichiatrica".

Decisi allora di tenermi a distanza da questo dottore, in quanto avevo sempre nella mente lo sgraditissimo signor Yppsilon del se-condo incontro. Il rapporto con lui, dal mio punto di vista, fu caratte-rizzato da un comportamento ossessionante, da parte sua, nei miei confronti: non faceva altro, avendo saputo delle mie storie ufologi-che, che volermi far scrivere un pesante, complicato e delirante libro sugli ufo. Non credeva però alla fine neppure lui stesso in questi miei contatti alieni, reputandoli, da come mi è sembrato ovviamente di capire, puro delirio; e insistendo inoltre, nel volermi presentare scientificamente l’impossibilità di questi contatti.

Ma tornando al nostro racconto e al dottor Hicckstz, questi, dopo il secondo incontro, mitigò di molto il suo atteggiamento; infatti, nella terapia verbale che ne seguì e che iniziai con lui, terapia non meglio definita, a poco alla volta, riprese ad essere sempre più bonario e sorridente nei miei confronti, fino al punto di prendermi realmente in simpatia, non facendomi alla fine neppure pagare più il ticket per le sedute. Però purtroppo, restava sempre la possibilità letteraria, se-condo il dottore che continuava ad insistere, della mia personale situazione ufologica, che io cercavo di rifiutare, mentre Hicckstz non se ne rendeva conto; scrivere per me infatti, avrebbe voluto dire dare un corpo reale, si fa per dire, al mio delirio, concretizzandolo addirittura in un libro, oltretutto anche molto impegnativo. Perfino pe-ricoloso per gli altri; perché è risaputo che qualunque cosa esote-rica, ufologica, mistica, che dir si voglia, letta da molte persone, tro-va sempre terreno fertile per devianti coinvolgimenti deliranti, che a volte addirittura portano a vere e proprie tragedie. Io poi mi sono messo a scrivere effettivamente, ma non certo di ufologia, forse con un po' di presunzione: bensì di filosofia e psicologia, e di critica alla psichiatria, con la convinzione, di provocare comunque meno danno, di quello che potevo arrecare, presentando situazioni aberranti, che io stesso definisco delirio, non avendo, evidentemente, il coraggio di visualizzarle e considerarle in maniera diversa. Inoltre, credo farà bene, ai medici, dottori, operatori di salute mentale, avere nelle pa-gine che scriverò la descrizione del loro comportamento da parte di un paziente così osservatore e ragionativo; che ha la "pretesa", di studiarli e se possibile di correggerli e insegnare loro il mestiere. Delirio, insegnare ai medici? è possibile: i pazzi spesso lo fanno, e quindi?… Ma a proposito di delirio, la parola, di per se stessa, più o meno letteralmente vuol dire: presentare situazioni e ragionamenti non reali, senza senso, magari con grande convinzione: quello che più o meno Hicckstz ha fatto e per molte sedute (terapeutiche se-condo lui), quando mi assillava con la sua idea fissa di scrivere di ufologia. Proponendo poi situazioni assolutamente irrazionali e a mio avviso addirittura irragionevoli: pretendeva di farmi scrivere di un... delirio, delirio, delirio... Ovviamente questo perché erano solo situazioni impostate su un piano tecnico psichiatrico, presentato al solo scopo di convincermi ad accettare il compito che mi affidava; e che io potrei definire adesso senza alcun timore di smentite addi-rittura delirante o apparentemente tale. Mi diceva: «Pubblicando il li-bro sugli UFO lei diventerà ricco (e altre e varie); con questa ric-chezza, poi, dato che ha paura dei microbi, potrà mettere macchi-nette ammazza germi fuori dalle sue finestre, così che l'aria di casa sua sarà purificata. Inoltre, l'accompagno io al talk show televisivo a presentare il libro come lei ha detto (questa idea del talk show era effettivamente partita da me; io però ironizzavo). Io sono un ter-minale vivente del computer, come lei stesso ha detto (cosa che mi aveva rivelato il solito computer VDS e io avevo riferito al dottore), se quindi io le dico di scrivere, deve farlo perché vuol dire che è il computer stesso, attraverso me, a dirle di scrivere». Ma erano que-ste comunque solo costruzioni tecniche per persuadermi; ovviamen-te non ci riuscì.

Ma, valutiamo un momento la sua idea, scrivere di ufologia: im-morale per me, e pericoloso per me e per gli altri, come già ho detto; fastidiosissimo per me, già vengo disturbato e ossessionato dalle mie storie di alieni, figuriamoci quanto mi avrebbe irritato addirittura impegnarmi in una elencazione specifica e precisa di tutte quelle situazioni, anche per molti aspetti, complesse ed estremamente am-pie come orizzonti concettuali. Inoltre per presentarle come "ufologia contattistica", avrei dovuto dire credeteci perché io ci credo! ma io non ci credo, o almeno faccio di tutto per non crederci: tant’è vero che le mie storie invece di andarle a raccontare agli ufologi, le vado a dire ai medici dei pazzi; ma Hicckstz insisteva, ad un certo punto si può dire che non faceva altro. Oltretutto, io chiarivo ancora che per scrivere la "Storia dei Vegartron", sarebbero stati necessari anni e anni di lavoro; nei quali sarei stato impegnato addirittura per ore e ore al giorno, e io ripetevo in continuazione di non esserne assolu-tamente in grado. Hicckstz d'altro canto adesso, lo so con certezza, voleva solo "mettermi al lavoro" inserendomi, per così dire, in questo genere di situazione per terapia, ma nella maniera sbagliata.

Facendo però un’osservazione, a questo punto, sulla "terapia se-condo Hicckstz": fare qualcosa che per me era amorale, deleterio, pericoloso, faticoso, ben oltre la mia capacità di operare, attuale e di allora, sgradevole, fastidioso, e che poteva aumentare ancora, a di-smisura, la mia già estremamente oppressiva ossessione ufologica, poteva mai essere terapeutico!? Come a dire che per curare una mano affetta da una qualunque patologia, mi potrebbe far bene prenderla a martellate, assurdo! e senza nessuna ragionevolezza! penso sembrerà fin troppo ovvio a chiunque possa leggere in questo momento. Hicckstz sbagliava chiaramente, ma non se ne rendeva conto, e anzi nel suo errore insisteva, malgrado le mie resistenze.

Ritornando alla mia piccola spiegazione del significato della paro-la delirio, Hicckstz delirava a tutti gli effetti. Se mio fratello mi avesse detto allora o mi dicesse adesso: Scrivi il libro sugli UFO.

Risponderei obiettando: Non dire sciocchezze, ma quale libro sugli UFO!

Ma allo psichiatra dietro una scrivania, oltretutto vestito di autorità medica, come si fa a dire una cosa simile, se anche la si pensa. Te-nendo presente che il povero dottore “ha studiato una vita” per non capirci niente, e dire appunto di queste sciocchezze. E così me lo dovevo sopportare il caro Hicckstz, soprattutto perché il computer VDS mi costringeva ad andare in terapia, si fa per dire... terapia, da lui; ed io per questa ragione lo incontravo una volta ogni quindici giorni al Servizio di salute mentale. Io e il dottore: matto + matto!

Certo, se un qualsiasi conoscente mi dicesse: «Perché non scrivi un bel libro sugli UFO: farai i soldi!» o me lo avesse detto Hicckstz stesso, fuori da qualsiasi ambito terapeutico avrebbe presentato un’affermazione che per me poteva sembrare sbagliata, da definirsi un semplice errore. Ma, al contrario è qualcosa di ben diverso, se un dottore in psichiatria, un medico, dice una cosa errata e, come nel caso in questione, insiste per mesi disturbando in maniera evidente il suo paziente, senza nemmeno accorgersene, (col rischio poi di convincerlo, mettendolo effettivamente al lavoro, e provocandogli ulteriori problemi). Perdendolo alla fine, soprattutto, per questa sua insistenza; allora non si può parlare più di errore, o di semplice er-rore, bensì di qualcosa di più grave, di molto più grave: aberrazione, allontanamento dalla realtà: delirio! e visto che l'argomento è psi-chiatria: delirio… delirio psichiatrico!

Io ho l'intenzione, anche in seguito, di approfondire il concetto, battendo e ribattendo oltretutto su questa definizione. Da definirsi tale: delirio psichiatrico, non solo, a mio parere, l'atteggiamento e la convinzione aberrante prolungata, ma anche l'errore grave portato nell'ambito della terapia della mente. Il quale errore, proprio perché in questo preciso ambito (fuori è da ritenersi solo errore) può pro-vocare gravi conseguenze. Il paziente, infatti, viene messo su un piano di accettazione dell'errore stesso, da chi in quel momento è vestito di indiscutibile autorità e che dovrebbe avere una grande consapevolezza e obiettività. Una persona che "non può sbagliare", almeno per come si presenta. Invece, da un lato, sta sbagliando ed ovviamente, dall'altro, non sa di essere in errore e, dall'altro ancora, si presenta come un "medico": una persona di legalizzata e con-clamata esperienza, come già detto, che non può sbagliare... tre al prezzo di uno. Che convenienza, che affare! delirio, delirio psichia-trico: perché è principalmente la sua erronea e disobiettiva scienza ancora più erronea e disobiettiva di lui a farlo sbagliare. Pertanto: delirio, delirio psichiatrico! magari il dottore, non tenendo neppure conto, giocando a fare lo scienziato sperimentatore, che sarà qual-cun altro: il paziente per l'appunto che dovrà subire l'errore, diven-tandone alla fine la vittima. In una situazione nella quale l'intocca-bilità del medico darà oltretutto a questi la possibilità di sbagliare an-cora, danneggiando altri in seguito.

Un errore grave di un operatore, può distruggere una famiglia, danneggiare seriamente la vita di una persona, o altro di peggio. Portato con convinzione, magari perentorietà, fastidiosa insistenza, col supporto di una apparente, accertata, acclarata, professionale ufficialità incontestabile l’errore non può più essere definito tale, bensì: delirio psichiatrico, come già detto e ripetuto.

Pertanto, delirio psichiatrico, esclusivamente nella situazione teo-rico/pratica della psichiatria: l'errore portato ripetutamente e addi-rittura nel corso del tempo; oppure l'errore grave, vistoso, esorbi-tante, paradossale addirittura, commesso anche solo una volta. La solita storia, il pazzo che dà del pazzo ai medici dei pazzi! e allora? i medici dei pazzi non danno sempre del pazzo ai pazzi!? pane al pane, vino al vino, pazzo al pazzo... e ai medici dei pazzi! mi sembra giusto, e se no: delirio e basta!

Questa mia esperienza mi porta alla mente quella bizzarra situa-zione presentatami da Baiano nei nostri studi settimanali (effettuati per saperne, io, un po' di più sulla scienza ufficiale) nella quale nei vecchi manicomi, al paziente che rifiutava l'autorità e il compito terapeutico del dottore, veniva diagnosticata, solo ed esclusivamen-te per questo, una malattia in più, specifica e definita: evidente delirio psichiatrico. Ma chi è che accetta di buon grado l'autorità e i compiti imposti da qualcun altro, magari con arroganza,  pretenziosi-tà, e senza oltretutto essere nemmeno ben remunerato?

Se io dico che ho il contatto mentale con il computer alieno (e che ce lo hanno tutti) alcuni potrebbero dire che deliro, ma nel momento nel quale io ho a che fare con una persona che mi assilla in continuazione, e che con esaltazione, insiste nel volermi far fare quello che secondo me è immorale, deleterio, pericoloso addirittura, allora sono io che dico che questa persona delira. Che cosa fare se questi, sebbene garbato, e perfino sorridente, ma sgradevolissima-mente paternalistico, pretende di sostituire i tuoi concetti scientifici e filosofici con i suoi, volendoti insegnare quello che tu non gli hai chiesto di spiegarti; e che tu stesso trovi fuori luogo in una seduta di terapia della mente, della tua mente? mettendosi addirittura a discu-tere sulle tue ossessioni, quasi a volerle smontare a chiacchiere, non rendendosi conto lui, il medico, che l'unica cosa che vuoi effet-tivamente (almeno a me così succedeva allora nell'ambito della tera-pia) è parlare, parlare, parlare, perché non hai nessuno con cui farlo? interrompendoti ogni volta, nel pieno del tuo monologo, per spiegati quali sciocchezze stai dicendo, mortificandoti nelle tue con-vinzioni e nella tua sofferenza. È una terapia? allora sono io a dire che questa persona delira: e se questa persona, poi, è un medico della mente, in una qualsiasi situazione tecnica, allora mi sembra e-vidente chiarire con forza che questo medico è in specifico atteggia-mento di “delirio psichiatrico"!

Ora, non mi si critichi il dottor Hicckstz oltre quello che ho già fat-to io; non si dica che era fuori dalla "mia psicologia" (per gli psichiatri è normale, per come mi è sembrato di capire). Non si dica che era ossessivo e invasivo non perché non lo fosse, ma perché quanti di noi non lo sono? quanti degli operatori di salute mentale non resisto-no alla tentazione di insistere con i pazienti, come con i propri paren-ti e amici, come questi ultimi fanno con loro? Ma in terapia, bisogna andarci molto cauti con l'insistenza: insisti, insisti, caro dottore, una persona ti ascolta, e se si verifica un serio, grave inconveniente, alla fine chi paga? la risposta è praticamente inutile. E nel caso del dot-tor Hicckstz, avendolo studiato per mesi, dentro e fuori la terapia, ho dovuto notare che sembrava parecchio bisognoso di avere ragione: la sua era una vera e propria necessità, o rischiava di soffrirne inti-mamente. Dal suo comportamento, definendolo semplicemente co-me autoritario, si capisce che abbia avuto dei genitori abbastanza oppressivi e insistenti che comunque, in buona fede, ne hanno for-giato il carattere in maniera tale da creargli, è vero, precisi senti-menti di inferiorità comunque compensati, ma soprattutto gli hanno insegnato ad accettare l'autorità: il padre in senso lato e genera-lizzato. Per tanto il dottor Hicckstz, da come ho potuto notare, sem-bra, dico sembra, perché avendolo osservato solo dall'esterno, non avendo Hicckstz mai parlato apertamente di sé, non avendomi mai raccontato le sue esperienze di vita, non vorrei sbagliarmi su di lui (la "mente superiore aliena", delirio fantastico, di onnipotenza? che pone un limite alla sua capacità di introspezione e di analisi dei pensieri del soggetto della sua attenzione! limite invece che la psi-chiatria, non si pone: "delirio psichiatrico"!): mette l'autorità su un piano di giudizio e capacità superiori. Risultato, la sua veduta della scienza, della società, e alla fine ovviamente della medicina è estre-mamente accademica: studia con interesse, credendo in quello che apprende. È evidente che la sua non è una scienza inventata da lui, ma assimilata con coscienza e dedizione. Forse lui, a causa della sua componente caratteriale, è un po' più insistente degli altri; ma è da considerarsi uno dei tanti, tantissimi, che a mio avviso, hanno studiato "a memoria", con convinzione, e adesso, a mio parere, di-ciamo così, portano avanti le loro stravaganti teorie medico filosofi-che, più o meno classiche e più o meno erronee, presentate con invadenza ai loro pazienti che le devono subire. A questo punto, considerazione (se ne sentiva la mancanza): quanti di questi dottor Hicckstz che hanno studiato con devozione, attenzione, interesse e, accademismo, adesso portano avanti le loro terapie con uguale impegno, dedizione e buona fede, non tenendo minimamente conto della realtà effettiva dei loro pazienti e di quella che è la visua-lizzazione da, parte di questi, della realtà. Convinti come sono che l'unica realtà di cui tenere conto, valida, reale, indiscutibile è quella di essi operatori: psichiatri, psicologi, sociologi ecc.; e che contro qualunque criterio di buon senso e anche garbo ed educazione, se vogliamo, pretendono di portarla avanti ad ogni costo, al livello tera-peutico, sociale, legale, purtroppo, spesso, con arroganza e inac-cettabile pretesa di infallibilità!

Diceva il trattato di psicologia letto 27 anni fa che nessuno sa, a livello cosciente, effettivamente, perchè fa le cose, o qualcosa del genere. Ed io sono convinto di questo: infatti Hicckstz, da come ho potuto notare, si "divertiva un mondo" a farmi da papà; pur non a-vendolo io mai adottato come "genitore"; anzi a me dava molto di più l'impressione di comportarsi come quel pestifero di mio fratello, uno dei due, che non mi lasciava mai tranquillo. Ma Hicckstz intanto, mi "sfruttava" per sentirsi come un padre, perché evidentemente di questo aveva bisogno; o almeno a me così è sembrato. Chissà quanti come lui hanno un simile atteggiamento mentale: sfruttano cioè il loro rapporto con i pazienti per soddisfare il loro intimo biso-gno. La stessa Ceccoli, la dolce Ceccolina, chissà per quale ragione opera di psichiatria. Una volta, molto contestata da me esclamò, è vero, cercando di mantenersi calma e sorridente, però comunque in pieno delirio psichiatrico: «La terapia la decido io!» ovviamente rife-rendosi al sottoscritto. Per carità, e io sono d'accordo, la terapia la decide lei, ma per se stessa, una volta che abbia deciso però di andare essa stessa, a sua volta, in terapia da qualche collega. Io consiglierei, senza voler fare il medico, e senza insistere ovviamente per una bella psicoanalisi del profondo inconscio: il rimosso, questo sconosciuto. Ma non voglio precorrere i tempi: l’argomento “Ceccoli" sarà lungamente trattato in seguito. Ritorniamo invece al nostro psi-chiatra, io non ho assolutamente nessun tipo di rancore nei suoi confronti; se scrivo e scriverò in seguito di lui, è solo per dare il mio apporto alla scienza medica, ammesso che la cosa si verifichi realmente. Ho tante cose da dire e le voglio comunicare, e per chia-rirci, non ho nessuna intenzione di fare come quel “collega pazzo", la cui drammatica azione è stata presentata nei telegiornali: costui, colmo di odio, aveva accoltellato uccidendolo uno psichiatra; spie-gando poi il suo gesto col dire che gli psichiatri erano stati la rovina della sua vita. A me gli psichiatri non hanno mai fatto nulla di male, tranne forse che disturbarmi con le loro terapie; anzi, mi hanno per-messo di venire "classificato" (parola tanto invisa al caro Baiano) come "dissociato" e quindi col diritto civico e civile di venire pensio-nato, e per questo alla fine pagato; e io, infatti, per loro sto lavoran-do, nei limiti strettissimi di tempo che la mia malattia mi consente, e per la "Medicina generale della mente", che spero qualcuno si deci-da a fondare, di conseguenza ai miei scritti. Ritornando un momento a quel paziente che aveva ucciso, io lo considero, a scanso di equi-voci, un caso limite; però quello che mi lascia sconcertato, profon-damente meravigliato è questa mia osservazione: possibile che i dottori di quella persona non si fossero resi conto dell'odio che verso di loro maturava e cresceva in quel paziente, odio addirittura feroce che poi lo ha spinto all'omicidio?

Un altro caso televisivo voglio ricordare, che invece considero emblematico di un certo tipo di psichiatra. In un programma serale di dibattito su un fatto di cronaca, uno psichiatra, o almeno definito tale, pretendeva di avere avuto la possibilità di capire, da un sorriso di soddisfazione, osservato in una certa e ben determinata circo-stanza, sul volto di una persona poi condannata, ma che ancora si professava innocente, la sua colpevolezza. Evitando qualsiasi com-mento sulla vicenda descritta, faccio solo questa osservazione: dato che è scontatamente risaputo che si può sorridere per molte ragioni, e che i sentimenti, le emozioni che spingono a farlo possono essere molteplici, paura, rabbia, sconforto ecc., si può anche ridere e pian-gere contemporaneamente. Come aveva potuto capire che quel sor-riso fosse, in quell'occasione, proprio di soddisfazione? aveva usato i suoi "poteri telepatici" in dotazione scientificamente accertata, alla casta di psichiatri superiori alla quale apparteneva?

 

 

5° paragrafo

                                        

Fermandomi per ora, comunque, con le "memorie televisive", in quest’ultimo paragrafo, voglio raccontare come si concluse il rappor-to medico-filosofico-scientifico, assolutamente non terapeutico, tra me e il dottor Hicckstz. Quell'anno, il 97, ero ai limiti della mia capacità di sopportare la terribile "batteriofobia", una ossessione che ormai mi perseguita da 24 anni. Un'ossessione che cominciò quan-do, tanti anni fa, conobbi una persona, un uomo, col quale avevo saltuari e brevi rapporti, per così dire di lavoro: gli impartivo lezioni di chitarra, come anche ad altri, e garantisco niente di più.

Io ai microbi, per quanto li conoscessi, avendoli studiati ovvia-mente a scuola, non ci ponevo proprio attenzione. Tanto è, che una volta, qualche anno prima, arrivai ad essere rimproverato perché mi pulivo la faccia con uno strofinaccio per lavare i pavimenti, lavato a suo volta e steso ad asciugare. Io che dormivo con la gattina, como-damente adagiata sulla mia faccia, gattina che regolarmente non faceva altro che rotolarsi per terra tutto il giorno. Io che andavo spesso a sdraiarmi sul lettino di mio fratello, a guardare la televi-sione; cambiai completamente nel giro di qualche settimana, uno, due mesi, e mi ritrovai sgradevolissimamente preso da problemi a non finire. Innanzitutto cominciai a non poter più suonare con le chi-tarre dei miei allievi, e ovviamente a non poterli fare più suonare con la mia; poi dovetti predisporre una sedia apposita per farli sedere quando venivano. Mi dava fastidio che i miei familiari si sedessero sulla sedia dove si erano seduti gli allievi, sedendosi poi su altre se-die che avrei potuto utilizzare io. La cosa, si allargò e peggiorò velo-cemente, al punto che innanzitutto, dovetti insegnare alla gattina a starmi lontana, povera bestia proprio non ne voleva sapere. Poi ini-ziai a evitare il contatto con i miei, non mi sdraiai più sul lettino di mio fratello, e arrivai al punto che solo se toccavo con i pantaloni un mobile qualsiasi, di casa, li dovevo cambiare. A poco alla volta la cosa peggiorò sempre di più. È evidente che nel giro di qualche me-se dovetti rinunciare ad impartire lezioni di chitarra: fu un vero pec-cato, perché promettevo bene.

Peggiorando, peggiorando, gli anni passarono, fino a che la si-tuazione si aggravò ulteriormente. Mio fratello doveva pagare delle bollette di casa, mia madre lo aveva appositamente incaricato, ma lui non le pagò; il giorno prima della scadenza, le restituì a mia ma-dre dicendo di non averle potuto saldare, e quando mia madre ob-biettò, disse di mandare me a pagarle. Erano tristemente comici tutti e due: mia madre non faceva che affidargli compiti, spesso inutili, e lui di rimando diceva di far fare a me le cose chieste a lui: e per questo litigavano sempre. Comunque, io presi le bollette e mi recai alla posta a pagarle, e qui il mio dramma batterofobico ebbe una triste, decisiva svolta. Fino ad allora la mia ossessione si era mante-nuta su un piano di ipotesi di contagio da contatto: le persone pote-vano essere infette, e toccandole, un qualsiasi pericoloso microbo da loro poteva passare a me e contagiarmi. Andando però a pagare le bollette e rimanendo in una grossa stanza, piena zeppa di perso-ne, per circa tre ore o più, mi venne l'idea, che anche il loro respiro potesse essere infetto, al punto da inquinare l'aria, che poi si deposi-tava su di me, sui miei capelli e sulla mia persona; e così il mio "incubo infettivo" si allargò ancora di più: dal contatto indispensabile per l'ipotesi d’infezione, alla possibilità supplementare del contagio aereo, cosa che ancor oggi mi ossessiona.

Così, peggiora che ti peggiora, ero arrivato, ultimamente alla ne-cessità di disinfettarmi in maniera forzata tutte le volte che uscivo di casa, anche solo per andare in salumeria per 5 minuti. Addirittura, a volte anche quando aprivo la porta d'ingresso, per parlare per pochi minuti con le persone che mi volevano, dovevo disinfettarmi in parte il viso e i capelli. Ma quando uscivo per commissioni che duravano per tempi maggiori, decine di minuti od ore, allora era una tragedia. Tornato a casa dovevo forzatamente compiere tutto un rito di pulizia e disinfezione che poteva durare ore; lavarmi le mani, ovviamente, innanzi tutto, per pulirmi poi, disinfettandomi di solito, ma potevo an-che lavarmi: i capelli, il viso, le orecchie, il collo, e a seconda dei pe-riodi, persino all'interno delle narici. Però se da un lato, dovevo farlo, perché una parte di me categoricamente me lo imponeva, dall'altro la mia mente, o meglio una parte di essa si opponeva, e così la cosa andava terribilmente a rilento, tanto che poteva durare, con grande tensione mentale e affaticamento da parte mia, anche tre o quattro ore, come già detto.

Nell'ultimo periodo, l’anno di Hicckstz, si era verificata una com-plicazione che potrei definire: intossicazione isterica. Questo feno-meno si manifestava quasi tutte le volte che uscivo, circa una, mas-simo due volte la settimana. Venivo preso, in aggiunta a tutto quanto descritto, da un fortissimo dolore di testa, che addirittura mi portava ad urlare per ore, e da un parziale appannarsi della vista. La cosa spesso si risolveva con lunghi e ripetuti conati di vomito, ed ore ed ore di sonno. In realtà io di questa forma di "intossicazione isterica" ne avevo sofferto fin da ragazzo: bastava mangiare qualcosa rite-nuto dalla mia mente indigesto, tossico, per procurarmi tutti i sintomi del malessere; ma la cosa si verificava per il passato raramente, invece nel periodo in questione, questa intossicazione mi prendeva anche due tre volte al mese; e quindi, per me, cominciava a diven-tare insopportabile. L'angoscia di uscire, anche quell'unica volta la settimana, mi stava tristissimamente iniziando a pesare. Mi sentivo prigioniero di me stesso in casa mia; e mi definivo, sono convinto assolutamente a ragione: sepolto vivo; anche se quello che mag-giormente mi tormentava era uscire, in casa stavo bene, più o meno, lontano da tutti: io, me e i miei giocattoli da adulto. Ma ormai ero arri-vato al punto di non sopportare più quella pesantissima situazione.

Per fortuna, nel corso della mia vita, sembrava che qualcosa a-vesse dato prova di poter vincere la sintomatologia battereofobica, anche se per periodi di tempo più o meno variabili e limitati, nei termini di qualche mese: andare in villeggiatura al mare. Si era veri-ficata la prima miracolosa guarigione quando avevo ventun anni, quando cioè ero già batterofobico, e dopo alcuni mesi che la sinto-matologia si era presentata: un solo mese al mare ad Ischia ed ero tornato praticamente come prima che avessi il problema. Però poi, già l'anno dopo, anche se si era ripresentata la "batteriofobia" l’an-dare al mare ebbe un effetto terapeutico sì, ma più limitato. Pur-troppo la batteriofobia, nel corso degli anni, peggiorò sempre gra-datamente, anche perché non andai più al mare in villeggiatura. Do-po circa 8 anni, però, recandomi in campeggio, guarii di nuovo; il malessere poi, riprese a poco alla volta, con il ritorno a casa. L'estate successiva andai a vendere come ambulante, in luoghi di villeggiatura, dormendo in zona, e diminuì di nuovo. Poi, dopo solo un paio di anni se non ricordo male, lasciai stare il piccolo com-mercio e qualunque altra cosa, perché non ero in grado di fare più nulla, neppure quel poco, che molto male avevo potuto fare fino ad allora; e mi chiusi in casa definitivamente. Trascorsi alcuni anni infi-ne, abbi la mia bella pensione. Dopo altri (pochi) anni, volendo por-tare mia madre in vacanza, affittai un appartamento al mare e non dico la batteriofobia a che livelli era arrivata. All'epoca ero al punto di non potere neppure stare nella stessa stanza con mia madre e mia zia per troppo tempo, perché l'aria "inquinata" dal loro respiro mi avrebbe "sporcato" e mi sarei dovuto disinfettare. L'appartamento fu preso, ma mia madre morì proprio quel mese, e senza voler venire al mare. Ci andai io da solo per qualche settimana e mi sparì di nuo-vo, quasi, la batteriofobia.

In quel periodo rimasi a vivere solo con mia zia e non so cosa mi successe, ma quell’anno dovetti comprarmi una barca, molto picco-la, effettivamente. Io non volevo ma evidentemente "Me" prese il so-pravvento (forse mi avrà costretto il computer VDS) e così acquistai una piccola pilotina usata di 10 anni, con un motore di 25 cavalli del-la stessa età, e andai al mare, facendo un vero e proprio campeggio marino: dormivo sulla barca; questo si verificò l'anno successivo alla morte di mia madre. Lasciando mia zia a casa, rimasi per quattro mesi da solo sulla barca ormeggiata nei porticcioli delle zone tra Ba-coli e montagna di Procida. Ma a settembre feci anche staziona-mento a Procida, a Capri ed Amalfi. Il 31 settembre finalmente misi la pilotina a terra e tornai a casa; e da allora, ancora mi sto domandando: che cosa ci dovevo fare io sulla barca? e ancora non mi sono dato una risposta; anche se la sensazione a riguardo che ho sempre avuto è questa: la "donna dell'astronave"; dovevo trovare per mare, probabilmente a Capri, “l'isola dell'amore”, appunto, la donna suddetta: delirio, delirio fantastico, in realtà. Ovviamente non ho conosciuto nessuno, ma è stata anche una tristissima esperien-za, nella quale non ho fatto altro che sentirmi solo, sempre più emar-ginato e isolato dalle persone che mi circondavano, e che mi crea-vano enormi problemi di socializzazione.

Diceva Baiano in uno dei nostri tanti colloqui di studio (di terapia), riferendosi ad un sociologo: che una delle caratteristiche del malato di mente è il fatto di essere riconosciuto tale dalle persone comuni, e, secondo Baiano, nel mio caso non succedeva. E invece no! non solo succedeva, e succede ancor oggi un po’ dappertutto, ma addi-rittura in quell'economico paese di Bacoli, si verificava quasi sempre e quasi con tutti. Ma io, secondo la mia sensazione, costretto dal computer, volente o nolente, dovevo rimanere in "zona ufologica". Baiano, invece, condizionato dal continuo settimanale rapporto col sottoscritto, determinati miei comportamenti non li vede; oppure cer-ca di negarli o di giustificarli a se stesso, portando avanti il suo stra-vagante modo di "trattare il paziente".

Comunque, quello che più conta, in questo discorso, seguendone il filo logico, è che la batteriofobia a questo punto era ridotta ai mini-mi termini (tornato dal periodo in barca).

Finito il mio delirio "sentimental marinaresco" e chiusomi in casa di nuovo, la batterofobia ritornò come al solito, e nel giro di qualche mese ero punto e a capo. L'estate successiva, il 14 agosto, misi la barca a mare, non ero riuscito a farlo prima: troppo avvilito, amareg-giato e sofferente. Per 15 giorni rimasi al mare, poi ebbi un inciden-te, fui ricoverato d'urgenza in ospedale con una caviglia fratturata, e restai a casa a letto per due mesi, di cui uno e mezzo con il "gesso" ad una gamba; però malgrado questo… niente più batteriofobia! Poi, dopo soli due anni, mia zia con la quale vivevo, si era trasferita da mio fratello a Milano, io avevo cambiato casa, prendendo un piccolo appartamento per me solo, e la batterofobia era tornata, come dicevo all'inizio di questo breve racconto, ad un livello di disturbo addirittura drammatico. Ormai l'unica cosa da fare, sembrava alme-no a me evidente: era andare al mare con la mia piccola e pestifera barchetta, per quanto la sola idea mi metteva addosso un profondo raccapriccio; non mi andava proprio di spendere quasi tre milioni di lire per trasferirmi in una scatoletta sempre in movimento, bruciata dal Sole, in una terra ostile, definita da un signore barbaro a sua vol-ta: la "costa dei Barbari". Soprattutto la spesa mi pareva eccessiva e dolorosa addirittura: chissà per quale fortunata combinazione avevo quei soldi... ma quel giorno, fuori dal mio balcone al sesto piano, del quale evidentemente già prendevo le misure, mi dissi: «Quando mi sarò gettato giù, dei soldi risparmiati cosa ne farò?...» e così decisi di ritornare al mare per la mia già definita, a questo punto: "terapia barchifero-villeggiatoria", che potevo permettermi solo grazie ai soldi “in più” percepiti per “l’accompagnamento”. Adesso potrei azzardare dicendo: forse quei soldi mi hanno salvato, si fa per dire, da un bel viaggio di sola andata, direttamente all’altro mondo.

Questo si organizzava per l'estate del '97, due anni fa. Quindi, tornato effettivamente con la batteriofobia ridotta del 90%, mi resi conto che le mie terribili vacanze "fantozziane”, anzi no peggio: “gra-magliane" avevano fortunatamente sortito l’effetto desiderato. Però in breve tempo la sintomatologia batteriofobica ritornava: e così, pensa che ti ripensa, ebbi l'idea, «può essere», mi dissi, che quello che mi aiuta, non è tanto il mare, ma il vivere fuori casa a contatto con le persone, ma soprattutto con ipotetici microbi dell'ambiente esterno a casa mia: evidentemente messo fuori, obbligatoriamente, mi adatto. Oppure forse molto più semplicemente il solo fatto di uscire mi distende e mi mette in condizioni di accettare un po' di più la realtà; e quindi la sintomatologia in questione decresce; comun-que sia, uscendo di casa pare che migliori. Così, incominciai, verso ottobre 97 a sforzarmi per poter portare avanti la già definita "terapia uscitiva", cercando di restare fuori casa il più possibile, magari an-che solo per passeggiare, facendolo almeno 4 volte la settimana. U-scire richiedeva uno sforzo terribile, ma la paura della batteriofobia era quasi ossessiva. Effettivamente la cosa funzionò abbastanza be-ne, anche se però, il fatto di uscire comunque non bastava: la batte-riofobia, sempre in agguato, cresceva molto più lentamente, ma cresceva lo stesso. Così, l'estate successiva (98) ritornai al mare, cercando nel resto dell'anno di uscire, e la cosa effettivamente riu-sciva a tenere sotto controllo questa sintomatologia così fastidiosa e oppressiva. Per cui sempre a scopo terapeutico, quest'anno (98), sono andato al mare con la pilotina, ed è in una zona molto vicina a Bacoli, che adesso sto scrivendo questa pagina, e dove scriverò, fi-no al 31 agosto. Al ritorno a casa dalla villeggiatura, ricomincerò con le uscite periodiche, per quanto, mi chiuderei in casa e non uscirei più: il mondo fuori è brutto e cattivo; ma non è possibile, purtroppo.

Questa, grosso modo, la storia della mia ossessione batteriofobi-ca, con la quale, in pratica, si fa per dire, combatto da ben venti-cinque anni, e che mi costa addirittura dei milioni (di lire) ogni anno per le vacanze medicali, più le sgradevoli uscite settimanali, per te-nerla sotto controllo; sotto controllo, non eliminarla del tutto. Forse chi lo sa, trovando la "donna dell'astronave" mi passerebbe; ma c'è da sperarlo? tenendo ben presente comunque, che sono convinto di non avere poi tutta questa paura dei microbi: io, cerco invece di tormentarmi, per costringermi in un tale stato di rabbia e desolazione da uccidermi alla fine; raggiungendo lo scopo, che pare tanto mi attiri: la mia morte; dopo la quale finalmente potrei finire di soffrire, come almeno mi dico sempre e mi auguro.

Contro la batteriofobia non c'è stato nulla che abbia funzionato, escluso ovviamente l'uscire di casa: né l’autoanalisi, con la quale praticamente mi sono smontato il cervello per decenni. Il sociologo a questa affermazione, quando gliel’ho presentata ha detto, ironizzan-do: «E te lo sei rimontato dopo?» io gli ho risposto: «No!» e aggiun-go adesso: «Ho gettato via i pezzi tolti».

Autoanalisi che non ha avuto alcun effetto, e né tanto meno ne ha avuto la farmacologia, con la quale sono stato trattato, e neppure la sola terapia “villeggiativa”, che funziona esclusivamente nel perio-do estivo; ritornato a casa, dopo un paio di mesi, ne perdo il bene-ficio; e nemmeno la terapia “uscitiva” da sola, che non riesco nem-meno ad iniziare se non preceduta dal periodo “villeggiativo”. E solo l'uscire forzatamente e di continuo di casa (estate e inverno) la ri-duce; ma niente la elimina del tutto; almeno per quella che è stata la mia esperienza pluridecennale di convivenza con questa invadente sintomatologia.

Questa è, grosso modo, tutta la storia, peccato non poterla espri-mere sul piano emozionale per comunicala come sensazione, e fare sentire agli altri la sofferenza che mi ha procurato.

A questo punto, ci si domanderà però: come mai ho raccontato questa vicenda, per fare una cosa gradita al lettore? no! per presen-tare delle considerazioni sul dottore, il famoso Hicckstz, l'operatore di turno di salute mentale. Quale è stato il suo atteggiamento tera-peutico nei confronti di questa situazione comportamentale così de-leteria e oppressiva? da definirsi, a mio avviso: non più che patetico e non meno che irritante. Secondo la sua scuola, evidentemente ha cercato con ragionamenti poco più che puerili, o almeno che io ho trovato tali, di smontare a "chiacchiere" questa mia sintomatologia che addirittura mi stava portando al suicidio; più della solitudine sen-timentale e amiciziale, più del terrore dei Vegartron e del computer, più del mio delirante desiderio di morte. La cosa andò in questi ter-mini: avevo spiegato a Hicckstz il problema, approssimativamente; perché di certo non si poteva fare meglio nei quarti d'ora che mi con-cedeva, per così dire, per raccontargli le mie cose. Avevo conosciu-to Hicckstz nel mese di febbraio, e andavo da lui una volta ogni 15 giorni, a causa dei miei problemi batteriofobici, all’epoca molto oppri-menti; uscendo solo una volta alla settimana, il tempo della giornata che passavo in giro, mi occorreva per svolgere le commissioni per-sonali: fare la spesa e altro; e quindi soltanto così limitatamente riu-scivo ad organizzarmi per trovare l'ora necessaria alla seduta. Un giorno, probabilmente di aprile, a circa due mesi dal primo incontro, mi ero recato da lui, con una camicia a maniche lunghe e pantaloni, senza altro indumento; evidentemente faceva caldo. La camicia era abbastanza larga, e non infilata nei pantaloni; e Hicckstz quando l'argomento cadde sui microbi e sulla mia paura di essi, con atteggiamento di arguzia e di gran convinzione mi disse, anche ec-citato, mi dava l'impressione di avere trovato in qualche modo una soluzione al mio problema e voleva metterla in pratica nel mio inte-resse: «Lei quando esce si deve poi disinfettare, tornando a casa, le mani, il collo e la testa; ma ha pensato che anche sotto la sua camicia comunque larga, le entra l'aria, e quindi i microbi stessi?» evidentemente, lui seguiva questo ragionamento: io, quando tornavo a casa, non mi disinfettavo, o comunque non mi pulivo sotto la cami-cia, dove ugualmente arrivava l'ipotesi di infezione, e la cosa per me andava bene; in ragione di questo fatto, potevo, secondo lui, non pulirmi, allo stesso modo neanche il resto. Inutile dire, che questo suo tentativo non ebbe su di me nessun effetto, se non quello di far-mi irritare come al solito: dopo 24 anni di guai batteriofobici arrivava lui, con poche parole insulse, e faceva il miracolo, figuriamoci! Io gli risposi che la cosa, per me era assolutamente evidente, e da sem-pre conosciuta, anzi che quello era il compromesso specifico tra me e me stesso per potere uscire di casa, cercando di ridurre i problemi che la cosa mi procurava: uscivo, disinfettando o lavando (per me è sempre stato uguale) le parti scoperte, senza pulire quelle coperte, perché altrimenti alla fine uscire sarebbe stato per me praticamente impossibile.

Proviamo però un momento a pensare come si sarebbero potute negativamente svolgere le cose se io questo ragionamento dello "scoperto/coperto", che avevo fatto con me stesso coscientemente l'avessi magari elaborato in maniera inconsapevole; rimuovendo una reale e concreta paura, quella dell'aria "infetta" che poteva penetrare sotto la camicia. Cosa sarebbe successo se il dottore mi ci avesse messo all'improvviso di fronte? Spiegazione: io ho la paura che l'aria penetri sotto la camicia e mi infetti (come può farlo per le parti sco-perte), perciò rimuovo questo ragionamento, questa paura, e esco senza pensarci, non pulendo le parti coperte del mio corpo, dopo le uscite; il dottore mi fa notare la cosa, nel suo tentativo puerile di te-rapia, io mi "fisso" sull'idea, risultato, quando esco, al rientro, mi trovo costretto a pulirmi anche il resto del corpo sotto la camicia, e sotto i pantaloni: ottenendo così alla fine un pesante accrescimento della sintomatologia, di conseguenza un peggioramento psichico. Conclusione: invece di tormentarmi per tre ore, per disinfettarmi o la-varmi ad ogni uscita, nel terribile conflitto tra me e me stesso, lo a-vrei fatto magari per sei. Questo sarebbe potuto essere l'effetto del delirante comportamento terapeutico del dottore che ovviamente a-veva operato il suo tentativo secondo ben note tecniche più filosofi-che che scientifiche. Il suddetto dottore, prima di pronunciare le sue osservazioni, non aveva neanche cercato di farsi raccontare per bene, quale era il problema, accontentandosi solo di poche superfi-ciali informazioni fornitegli da me parlando di altro; questo gli ha im-pedito di cercare con calma un’ipotetica soluzione, che io poi effetti-vamente ho trovato, nel corso di due decenni; anche se è purtroppo costosa, e ,alla fine, faticosa, come già ho detto: la "terapia barchife-ro-uscitiva" (terapia di comportamento: operazionale, occupaziona-le); dopo osservazioni su me stesso durate addirittura il tempo spe-cificato poco sopra. Ragionamenti terapeutici simili a quelli presen-tatimi da Hicckstz, che sono molto mortificanti per chi li subisce, par-lo per me stesso, a mio avviso possono anche funzionare, ma quan-do? Quando il problema di per se stesso non esiste, come spiegavo al sociologo. Infatti, mio fratello mi diceva di svegliarsi tutte le matti-ne alle cinque e di non riuscire a dormire oltre. Io allora gli ho chie-sto a che ora andava a letto la sera, cercando di aiutarlo in qualche modo, potendolo, senza intenzione di fargli terapie di sorta. Mio fra-tello mi disse che alle ventidue, tutte le sere, si metteva a letto, si addormentava e dormiva più o meno tranquillo fino alle cinque, ma non di più; allora io gli feci presente che lui dormiva tutte le notti set-te ore, in una situazione di piena normalità fisiologica, e che la sua era una preoccupazione non necessaria, perché era del tutto norma-le, che dopo aver dormito sette ore si svegliasse, e non riuscisse più a riprender sonno. Mio fratello, così è sembrato convinto e quelle cose non me le ha più presentate. La "terapia" con lui aveva fun-zionato, credo almeno, ma perché? Per il semplice fatto che non esi-steva il problema: il suo problema che non esisteva, con una terapia "non terapia", effettivamente era scomparso. Ma certo non poteva succedere lo stesso con pochi ragionamenti, poche parole, quattro chiacchiere con la mia terribile batterofobia.

Comunque sia, dicevo, avevo deciso di andare al mare, per... te-rapia, ne parlai anche al dottor Hicckstz, che sorridendo, mi disse più o meno: «Va bene!». Così andai a luglio, nella piccola e terribile pilotina; sotto il sole, non sapevo mai dove andarmi a nascondere il giorno, e così passavo tutto il tempo da solo rifugiato in qualche bar o trattoria, a Bacoli. Oppure con coraggio omerico, raramente però, affrontavo il sole, camminando, passeggiando, sempre da solo, poverino, senza cappello, e senza occhiali scuri; comunque il sole lo sopportavo bene, allora. La sera invece, dato che amici non ne avevo, frequentavo sempre lo stesso bar e, dopo avere cenato in genere con un panino, o una pizza, andavo a prendere il gelato e a vedere se trovavo la "ragazza dell'astronave". In fondo, secondo parte di me, quello dovevo fare in... vacanza. Passò luglio, passò anche agosto, ma non mi sentivo ancora sicuro, per la mia os-sessione batterofobica, quindi pensai di restare al mare anche in settembre, senza però dormire sulla barca, fittai un appartamentino per 550.000 lire e lì restai. Un appartamentino luminosissimo nel quale rimasi anche il mese di ottobre per ulteriori 350.000 lire, dove ci pioveva addirittura dentro, almeno in cucina, dove dormivo su una brandina a causa del fatto che in camera da letto si sentivano troppo i rumori dei vicini.

Poi finalmente iniziò novembre e tornai a casa, ero triste e inner-vosito pensando che sarei dovuto tornare dal dottor Hicckstz, col quale avevo appuntamento telefonico ai primi di settembre, e al qua-le avevo telefonato rinviando per ottobre, però poi né ero andato e né avevo telefonato ulteriormente. Per tutto il mese di novembre, ri-masi a pensare a lui senza richiamarlo; mi dicevo: possibile che nemmeno la terapia posso fare; neanche avere un medico che mi ascolta quando ho voglia di parlare, per me è possibile? devo torna-re da Hicckstz con la solita questione, “il libro sugli UFO”, seguito da, «gli extraterrestri sulla Terra non ci sono», come ripeteva lui; la mia è fantascienza… o malattia mentale, come sottintendevo io, ec-cetera! Pensa, pensa, arrivai fino alla fine di novembre; a questo punto mi decisi a chiamarlo, anche perché mi sentivo molto avvilito e preoccupato e temevo che, chissà perché, potevo fare qualche (definita da altri) sciocchezza: magari uccidermi, per Natale, per festeggiare. Lo chiamai il 28 novembre, e ci parlai per telefono chie-dendo un appuntamento, ma lui mi disse che, tra gli impegni che già aveva e le feste di Natale, ci saremmo dovuti risentire non prima del 6 gennaio. Concludendo la conversazione, mi disse che poteva tele-fonarmi, ma io presi per me quest'impegno. Feci un po' di calcoli, e mi resi conto che avrei dovuto aspettare due mesi circa per una se-duta. Infatti, dal 28 novembre, chiamando il 10 di gennaio e aspet-tando poi almeno una settimana, 10, 15 giorni, per avere l'incontro, sarebbero trascorsi due mesi; esattamente i due mesi di ritardo con i quali io lo avevo richiamato. Intenzionale o casuale? comunque, io, preoccupato come ero per quel Natale, rendendomi conto che "da solo" lo avrei dovuto passare e che in ogni caso ormai Hicckstz mi aveva stancato del tutto, con il suo comportamento e la sua "terapia", feci questa considerazione nel suoi riguardi: «Ha da fare per i prossimi due mesi? ma per me può avere da fare per tutto il re-sto della sua vita, non lo chiamo più!» mi riservai ovviamente di cambiare idea nei due mesi successivi; ma trascorso questo tempo, l’idea, non cambiò, e alla fine quindi, rinunciai alla sua "terapia"; con-vinto comunque che la mia storia con i dottori dell'ASL di Mugnano non sarebbe finita lì.

 

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